Aias, a Olmedo il centro fantasma: cinque piani e nessun paziente
Un’altra incompiuta dopo quella di Bono: i lavori del polo per disabili si sono interrotti nel 2008. Il gigante di 3mila metri quadri nella parte alta del paese appartiene alla fondazione Randazzo. Segnalateci le incompiute: inviateci una mail all'indirizzo fotoweb@lanuovasardegna.it
[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:regione:1.13002108:gele.Finegil.StandardArticle2014v1:https://www.lanuovasardegna.it/regione/2016/02/22/news/la-sardegna-degli-sprechi-segnalateci-come-si-buttano-i-soldi-pubblici-nei-vostri-paesi-e-citta-1.13002108]]OLMEDO. Gli ultimi operai se ne sono andati nel 2008, ma il cantiere arrancava già da tre anni prima. La grande scala gru, invece, è rimasta sino a 20 giorni fa: in tanti, in paese, si chiedevano perché fosse ancora là, arrampicata sulla mega struttura fantasma. Olmedo come Bono: anche qui, come in Goceano, la fondazione Randazzo aveva fatto le cose in grande. Anche qui sarebbe dovuto sorgere un centro Aias per disabili, una struttura polivalente destinata a diventare un rifugio anche per anziani non autosufficienti. Il sogno rimasto a metà è apparecchiato su un’area di quattro ettari nella parte alta del paese, vicino al parco urbano e a due passi da graziose villette. Tutt’intorno alla costruzione gialla e celeste i lavori si sono fermati, le imprese hanno fatto le valigie: la casa per i disabili è rimasta un guscio senza anima.
La storia. È l’8 aprile del 2002: Olmedo saluta con gioia la posa della prima pietra della struttura che finalmente può partire. Il progetto infatti è già vecchio di 10 anni, ma dal 1992 è stato frenato da intoppi burocratici e finanziari. Il 2002 sembra essere l’anno della svolta. A benedire la nascita del centro ci sono il vescovo, gli amministratori comunali, alcuni consiglieri regionali e naturalmente i rappresentanti della fondazione intitolata a Stefania Randazzo: il presidente e fondatore Bruno Randazzo e il figlio Vittorio, che ricopre la carica di vicepresidente.
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Il progetto. Dai 140 ai 160 posti letto distribuiti in camere da due posti ciascuna, 150 operatori a prendersi cura dei pazienti, tra medici, infermieri, fisioterapisti, pedagogisti, cuochi e addetti alle pulizie. Questi i numeri annunciati nel 2002 e ribaditi dall’Aias nel maggio 2008: nella pubblicazione mensile “Aias comunicazione” si dà come imminente l’inaugurazione dei centri di Olmedo e di Bono.
L’incompiuta. Il cantiere fantasma è protetto da una recinzione vecchia e lacerata in più punti. Vicino al cancello, per terra, c’è un cartello semi sepolto da erbacce e rovi: è riportata la data di inizio lavori, 29 maggio 2001, ma non c’è traccia della data prevista per la conclusione. Si sa però che l’opera sarebbe dovuta essere consegnata esattamente tre anni dopo, nella primavera del 2004. Per almeno due anni i lavori andarono avanti a pieno ritmo, in paese ricordano il via vai di operai e di mezzi. Il grande terreno fu sbancato, ai lati della strada d’accesso restano ancora cumuli di pietre e montagne di mattoni. E il grande palazzo prese vita, con i suoi cinque piani che si sviluppano su due blocchi sovrapposti, la torre centrale nel lato posteriore, la cappella e altri edifici più piccoli destinati a diventare sale per la riabilitazione. Complessivamente l’area di quattro ettari sopporta il peso di circa 3mila metri quadri di cemento per un volume di quasi 25mila metri cubi. Una enorme scatola vuota, abbandonata al degrado, che guarda il paese dall’alto.
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Dal sogno all’ecomostro. I larghi sorrisi che accolsero l’avvio dei lavori si spensero non appena i finanziamenti finirono. La fondazione Randazzo era riuscita a garantire al centro di Olmedo una ingente quantità di risorse. Ma a un certo punto il sogno si infranse. Addio ai posti di lavoro annunciati e addio a una struttura d’eccellenza che avrebbe potuto accogliere pazienti da tutta la Sardegna. Dal 2008 a oggi, quando gli ultimi operai sono andati via, gli unici visitatori sono stati i vandali che hanno fatto razzia di vetri, finestre e porte nuove di zecca. A brandelli anche l’impianto elettrico e le reti che separavano gli ambienti da ultimare: in diversi punti non ci sono protezioni e dall’alto ci si affaccia nel vuoto. L’ecomostro, oltre a essere un simbolo di degrado e abbandono, rischia di trasformarsi anche in una trappola.
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