La Nuova Sardegna

Addio a Soffiantini fu ostaggio dell’Anonima

di Silvia Sanna
Addio a Soffiantini fu ostaggio dell’Anonima

L’imprenditore di Manerbio rapito nel 1997 e liberato dopo 9 mesi

13 marzo 2018
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SASSARI. Di quella calda notte di giugno disse di ricordare ogni dettaglio: l’anguria mangiata per placare l’arsura, i piedi scalzi sul pavimento, la finestra aperta per fare entrare un po’ di aria fresca. Giuseppe Soffiantini era solo nella cucina della sua villa a Manerbio, in provincia di Brescia, quando dal buio comparvero tre banditi armati e mascherati. Dopo pochi minuti l’imprenditore del settore tessile era già in viaggio, legato dentro il cofano di un’auto, verso la sua prima prigione. In 237 giorni – tanto durò il sequestro – ne avrebbe cambiato tre. Il suo rapimento – opera dell’Anonima sarda guidata da Giovanni Farina (in carcere) Attilio Cubeddu (alla macchia) e Mario Moro (deceduto) – fu uno dei più cruenti: gli furono tagliati i lembi di entrambe le orecchie, uno fu inviato all’allora direttore del Tg5 Enrico Mentana per sollecitare i familiari al pagamento del riscatto. Quindici giorni dopo Soffiantini tornò a casa: era il 9 febbraio del 1998. L’imprenditore è morto ieri, vent’anni e un mese dopo quel giorno. Aveva 83 anni e una ferita ancora aperta nell’animo, «perché il sequestro è sempre dentro di me».

Cercavano il figlio. I tre banditi che la notte del 17 giugno 1997 entrarono nella villa di Soffiantini, cercavano Paolo, il più giovane dei tre figli – tutti maschi – di Giuseppe e della moglie Adele Mosconi. Ma Paolo non c’era, perché stava facendo il servizio militare e quella notte dormì in caserma. Quando uno dei carcerieri scoprì che il sequestrato era Giuseppe, si lamentò così: «Dovevate portarmi un giovane e invece siete tornati con un vecchio, e pure malato». L’imprenditore, infatti, era cardiopatico e una delle prime cose che comunicò ai suoi rapitori fu la necessità di assumere quotidianamente un anticoagulante. Glielo procurarono, perché era fondamentale che rimanesse in vita. Per il resto verso di lui ebbero pochissime attenzioni: Giuseppe Soffiantini dormì in mezzo in rovi, per terra, incatenato, sporco, gli stessi vestiti addosso d’estate e d’inverno e mangiò per mesi pane, aglio e cibo scaduto. Chiese dei giornali per mantenere una parvenza di contatto con il mondo: gli diedero l’Iliade e l’Odissea e lui lesse entrambe avidamente. Non ebbero pietà quando gli mozzarono i lembi delle orecchie per intimorire i familiari e gli inquirenti e quando gli dissero che se il riscatto non fosse stato pagato alla moglie e ai figli avrebbero fatto ritrovare il suo cadavere.

La banda dei sardi. Quattro mesi prima che Giuseppe Soffiantini venisse liberato, i suoi aguzzini avevano un nome. Fu un componente della banda a rivelarli tre giorni dopo il sanguinoso conflitto a fuoco a Riofreddo, tra Roma e l’Aquila. I Nocs avevano stabilito un contatto con i rapitori e quella sera, era il 17 ottobre 1997, simularono la consegna del riscatto. Ma tutto andò storto e nella sparatoria rimase ucciso l’ispettore Samuele Donatoni. Da un colpo esploso dai banditi, si pensò a lungo. Dal fuoco amico, si scoprì invece molti anni dopo. Riofreddo rappresentò la svolta nella vicenda. I banditi sapevano di avere il fiato sul collo. Nei tre giorni successivi, quattro componenti della banda finirono in manette. Per primo Agostino Mastio, di Galtellì: era terrorizzato e parlò subito. Il giorno successivo, dopo un’altra sparatoria sulla Roma-Pescara, furono arrestati Mario Moro di Ovodda e i complici Osvaldo Broccoli e Giorgio Sergi, entrambi di Cesena. Dopo poche ore si aprirono le porte del carcere anche per l’orunese Francesco Zizi, il vivandiere della banda. Moro rimase gravemente ferito nella sparatoria: fu ricoverato in ospedale con una pallottola conficcata nella spina dorsale, la sua condanna a morte. Prima di morire, il 14 gennaio 1998, rivelò come era nato il suo sequestro e come era composta la banda. E fece un ultimo appello disperato ai complici Farina e Cubeddu: «Liberate l’ostaggio».

La liberazione. Alle 9 di sera del 9 febbraio Soffiantini chiamò da una cabina telefonica i familiari a Manerbio. «Sto bene», disse. Dopo pochi minuti la stazione di servizio all’Impruneta, pochi chilometri da Firenze, fsi illuminò di sirene e lampeggianti. L’incubo era finito.

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