La Nuova Sardegna

Il Pd non trova l’intesa scontro tra Soru e Ganau

di Umberto Aime
Il Pd non trova l’intesa scontro tra Soru e Ganau

Nulla di fatto ad Abbasanta: l’assemblea dem sarà riconvocata il 4 o l’11 giugno L’ex governatore: Gianfranco, non puoi stare zitto. E lui: non fare il buffone

27 maggio 2018
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INVIATO AD ABBASANTA. Niente di niente. Neanche uno straccio di segretario reggente o traghettatore. Altro che soluzione pacifica dell’ultim’ora, auspicata alla vigilia, il Pd è ripiombato all’età della pietra. Come se nel frattempo non fosse accaduto nulla, neanche questo: è da settimane che dei marziani gialloverdi sono sbarcati sul pianeta «Palazzo Chigi» e l’hanno conquistato. Eppure, nonostante la brutale lezione di marzo, nel Partito democratico sono ricomparsi i duelli. È ritornato a essere quello della clava. Con Soru che, in assemblea, ha detto a Ganau, scelto in mezzo al mucchio degli avversari: «Gianfranco, da presidente del Consiglio regionale, come fai, in momento così drammatico, a stare zitto, ad accettare tutto, a non darci una mano?». L’ha detto dentro una bolla che, all’istante, s’è gonfiata di urla incrociate, con dentro anche un rabbioso «Renato, smettila di fare il buffone». Scaricato, a cinque centimetri dalla faccia dell’eurodeputato, da chi era stato chiamato in causa. Che poi, ritrovata la serenità, dirà: «Devi sapere un’altra cosa, i tuoi continui veti sulle alleanze, non mi piacciono. Smettiamola d’isolarci». Per ricevere in cambio: «Ma l’hai capito che caminetti, crocicchi e segreti, fuori da questa sala, stanno ammazzando il partito?». Pochi minuti dopo Soru ha battibeccato anche con Silvio Lai. «Chi esce da questa porta – ha detto – condanna a morte il Pd... e proprio tu, che sei stato un segretario regionale, stai andando via». Frase sparata al microfono sulle spalle dell’ex senatore a un passo dalla soglia. Perché poco prima proprio Lai aveva detto: «Quest’assemblea è nulla, va sciolta». Ci sono state altre urla, più forti, seguite da un poco benevolo: «Renato, non perdere la testa. Non mi citare. Vai per la tua strada, io per la mia». E lui di rimando: «In questo partito ci resterò fino all’ultimo». Macché conta delle tessere, c’è stata una rissa verbale anche s’è durata solo quindici minuti. Veloci e micidiali, nel mezzo di un’assemblea cominciata in ritardo, due ore abbondanti, e rallentata dalle dieci a mezzogiorno dalle solite riunioni correntizie lungo la 131 e fra le sterpaglie di Abbasanta.

Nata male. Senza avere alle spalle, come invece era sembrato, una soluzione condivisa e senza aver raggiunto, neanche stavolta, il numero legale, all’inizio è stata un’assemblea imbarazzante. Per il troppo silenzio dentro, nessun iscritto a parlare, e i molti chiacchiericci fuori, quelli dove, come sempre, si decide tutto. Fino al doppio botto, alle liti, anche se poi è stato proprio quell’elettroshock emotivo, come spesso accade, a riportare il dibattito sulle cose concrete, su quello che c’è da fare, per chiudersi però con l’ennesimo rinvio. Al 4 o all’11 giugno, per scegliere se il congresso straordinario è meglio celebrarlo subito o in autunno, se è più facile eleggere un nuovo segretario o far restare quello che c’è per alti trenta-sessanta giorni, oppure affidarsi a qualche saggio trasvolatore capace di portare in salvo quel che resta. Perché, sempre nel frattempo, gli omini gialloverdi, che solo per i dem continuano a essere dei marziani, hanno preso di mira altri pianeti. Uno è la Regione.

Lo scontro. È stato un «Ok Corral» a posteriori, due mesi dopo il voto, consumato all’ombra del Nuraghe Losa, in un centro congressi brutto, dove anche l’acqua non è potabile. Con un contorno di sguardi stralunati e stravolti, nel pieno della bagarre, perché l’esplosione è stata pubblica, davanti alle telecamere e agli I-phone. Un Oriazi contro i Curiazi impossibile da nascondere, come neanche lo sguardo esterrefatto del segretario Giuseppe Luigi Cucca. Che fiutato l’arrivo della bufera, un attimo prima, sollecitato per la verità da Soru, aveva provato a farli ragionar. I i renziani, la sua corrente, col gruppo dei popolari-riformisti, i suoi ex alleati, quelli che prima vorrebbero il referendum per un Pd sardo e poi discuteredel resto. Oppure s’è impegnato a far dialogare i soriani, che tra l’altro nei crocicchi prima del mezzogiorno di fuoco si erano già azzannati fra loro, col resto della piazza. Ci ha provato con queste frasi: «Non buttiamoci a corpo morto in una crisi al buio. È troppo pericoloso. Io lo so bene, mi avete lasciato solo per un anno intero. Sono pronto ad andar via. Lo farò ma appena ci sarà una soluzione unitaria. Allora sì che passerò la mano. Attenzione, per come siano usciti male, malissimo, dalle Politiche, rischiamo che il congresso diventi l’ennesimo terreno di scontro. Non del confronto di cui invece abbiamo bisogno da qui alle Regionali». È stato vano anche questo tentativo di tregua, passato in settimana attraverso la strada, diventata cieca in assemblea, di una staffetta volante fra Cucca e il suo vice Pietro Morittu. Acceso all’improvviso da un contrappello sollecitato per sapere se ci fosse o meno il numero legale, il fiammifero è stato gettato nel pagliaio e l’incendio ha bruciato tutto e tutti.

Il dopo scontro. Quando gli animi si sono calmati e non è stato facile, anche il secondo atto ha avuto del surreale. Spinti da un toccante attaccamento alla maglia, in tanti, più o meno famosi, si sono accalcati davanti ai giornalisti. Per dire cosa? «Mi raccomando, non scrivete quello che avete visto e sentito», oppure «mettetevi una mano sulla coscienza», o ancora «il nostro è un partito vivo, l’unico che ancora ha organismi democratici, in cui ci sono maggioranze e minoranze che si confrontano e discutono». Ma i duelli all’arma bianca, signore e signori del Pd, sono un’altra cosa. Dovreste evitarli, o quelli che marziani non lo sono, continueranno a dire dei dem: «Vogliono suicidarsi».

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