La Nuova Sardegna

Tomaso Cocco: «Sono l’uomo che cancella il dolore»

di Mauro Lissia
Tomaso Cocco: «Sono l’uomo che cancella il dolore»

L'anestesista è il responsabile del centro di terapia del Binaghi di Cagliari: «Sogno di aprire una clinica per l’eutanasia. Perché andare in Svizzera?»

23 ottobre 2019
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CAGLIARI. Il dolore acuto disconnette dalla realtà, ti chiude in un guscio impenetrabile, è come se calasse il buio e in quell’oscurità ci si sente soli e indifesi: quando parla della sofferenza fisica sul viso di Tomaso Cocco s’accende l’espressione di un militare sul campo di battaglia. Anestesista ospedaliero, anni a trattare i malati terminali nell’équipe di Umberto Veronesi, a Milano. A Cagliari è il responsabile del centro di terapia del dolore dell’Ats, al Binaghi. Lavora in un ambulatorio sobrio ma attrezzato, due infermieri, una folla quotidiana di pazienti spesso piegati dalla sofferenza che lo guardano come fosse la reincarnazione di Padre Pio. Non bada a orari e impegni privati, tra aghi, siringhe e farmaci la sua è una guerra dichiarata al male fisico, da affrontare con ogni mezzo legale: «La missione del medico è combattere il dolore – spiega Cocco – e da quando in Italia abbiamo la legge 38, in vigore dal 2010, il dolore cronico va considerato una malattia in sé, non soltanto un segnale di malattia».


Qualche dato per capire: «Nel nostro paese sei milioni di persone hanno a che fare almeno una volta all’anno con il dolore, che fino a una durata di sei mesi va considerato benigno, oltre diventa cronico e va classificato come malattia, ma solo il 2 per cento è dolore maligno ed è legato a neoplasie. C’è anche il dolore acuto, ma è solo un segnale d’allarme che scompare eliminando la causa». In epoche neppure tanto lontane la sofferenza era considerata normale, talvolta ancora oggi se ne parla come di un dono del Signore: «Invece è un’esperienza devastante – scuote la testa Cocco – che segna la nostra vita e la condiziona gravemente». Alle minacce severe si risponde con rimedi severi: «La scienza medica ha quasi del tutto vinto la guerra contro il dolore – avverte Cocco – rimane uno 0,5 per cento di casi in cui dobbiamo arrenderci, il dolore cronico neuropatico, alcuni tipi di emicranie di cui non conosciamo ancora l’origine. Ma i farmaci disponibili sono efficaci, basta usarli nel modo corretto».

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Qui si apre un tema centrale, insieme farmacologico e sociale: «Inutile girarci intorno – sorride Cocco – nessun farmaco è più efficace della cannabis. Se il dolore disconnette, la cannabis ricostruisce la connessione tra il paziente e il mondo». Farmaco efficace per alcuni, ancora droga per altri: «Sì, ci sono resistenze, c’è ostilità attorno alla cannabis – s’infiamma Cocco – sono stato il primo a somministrarla in Sardegna e molti colleghi mi guardavano con sospetto. Sento casi di medici di famiglia che si rifiutano di prescriverla, un atteggiamento assurdo che danneggia i pazienti. Io vedo ogni giorno sguardi sfigurati dal dolore che nel giro di pochissimo tempo s’illuminano, vedo persone rifiorire grazie alla cannabis. Ho cinquecento pazienti in cura con la cannabis, ognuno viene schedato e seguito, non c’è alcun rischio. Eppure...».

Eppure sembra ancora che il dolore vada registrato nel destino umano alla voce eventi ineluttabili, che si debba accettarlo stoicamente nel nome di chissà quale principio naturale: «È una visione inaccettabile – taglia corto Tomaso Cocco – perché non usare il migliore dei farmaci antidolore, perché privare chi soffre del sollievo straordinario offerto dal Thc (il tetraidrocannabinolo) e dal Cbd (cannabidiolo) che pure sono prodotti anche naturalmente dall’organismo umano? Si badi bene, non suggerisco un uso indiscriminato della cannabis, anzi i ragazzi non dovrebbero usare hashish e marijuana, che hanno alla loro base il principio attivo del farmaco. Parlo di somministrazioni corrette, nelle dosi giuste, quando serve e sotto stretto controllo medico. Spiego meglio: ai dosaggi giusti la cannabis non crea dipendenza e questa è una realtà ben nota nel mondo scientifico. Ecco perché non ha senso l’ostilità che si continua a registrare contro queste sostanze».

Il discorso si allarga agli oppioidi, altre molecole sospese nel purgatorio delle quasi-droghe, avversate da ampie aree sociali: «C’è paura a somministrarli, malgrado costino quattro volte meno degli antinfiammatori come Aulin e Brufen». In Italia, perché altrove la tendenza è molto diversa: «Da noi la spesa pro capite per gli oppioidi è di un euro e 60, in Europa è di 5 euro, in Germania 10 euro. Creano meno problemi allo stomaco, per gli anziani sono un toccasana». Sembra prevalere la convinzione che oppioidi sia sinonimo di stupefacenti: «Quando si parla di morfina è come se si parlasse del demonio, invece è una cosa bellissima così come tutti i suoi derivati. Toglie in modo istantaneo il dolore, eppure si continua ad averne paura. L’assurdo è che la resistenza non si registra fra i pazienti, ma tra i medici. Eppure basta saperla usare».

L’idea è di restituire benessere a chi l’ha perso, seguendo ogni strada scientificamente possibile: «La morfina e gli oppioidi restituiscono coscienza – insiste Cocco – perché il paziente che soffre non è più cosciente, si rinchiude in una camera buia. Bisogna fare attenzione, comprendere che al dolore fisico si sovrappone quello psichico, che spesso diventa irreversibile e porta a conseguenze tragiche. Allora è il caso di dire basta a questi tabù. Lo dico in un altro modo, si può giocare col proprio dolore ma non con quello degli altri». Forse pesano retaggi storici, legati anche alla religione: «In altri tempi – sorride Cocco – ti dicevano che bisogna partorire con dolore e che più si soffre e più Dio ti ama. Oggi io suggerisco ai miei pazienti di rinunciare a questo amore celeste per difendersi con ogni mezzo possibile dal dolore. Vedo che in genere mi danno retta e riescono a risolvere il loro problema».

Certo il dolore fa parte del quotidiano, è una condizione che spaventa ma può diventare gioco forza familiare. Chi non ha mai ricorso a un farmaco analgesico, per registrare spesso un fallimento sul piano terapeutico? «Ci sono malattie che provocano dolori spaventosi e che vanno affrontate coi rimedi giusti. Il male più acuto? Quello della lombosciatalgia, che in altri tempi costringeva a degenze di un mese. Oggi grazie alle nuove tecniche si torna al lavoro in tre-quattro giorni. Altri dolori acuti quelli provocati da coliche renali, emicranie, fuoco di Sant’Antonio per arrivare al dolore neoplastico. Non ha senso sopportarli, si possono affrontare con successo e superarli».

C’è un tema scottante e attualissimo, che solleva ondate di polemiche: il fine vita, quel passaggio ultimo che spesso è accompagnato da sofferenze spaventose. Tomaso Cocco ne ha una visione laica: «Sono per l’eutanasia, se non c’è alcuna prospettiva di guarigione il dolore non ha senso. Ma la legge la vieta, così possiamo praticare solo la sedazione di fine vita, che è un diritto del malato consapevole di andare incontro alla morte». È un tema spinoso, che accende gli animi: «La legge 38 è chiara – ribatte Cocco – nel paziente terminale che soffre noi medici dobbiamo abolire lo stato di coscienza. Io vengo chiamato spesso per queste situazioni, uso la morfina. Altri medici si rifiutano, hanno paura delle denunce. Ma se viviamo con la paura delle denunce non usciamo più di casa, il nostro dovere di medici va assolto».

L’eutanasia sarebbe il passo successivo, un passo difficile e controverso: «Il mio sogno è aprire una clinica per l’eutanasia – taglia corto Cocco – perché per esercitare un diritto dobbiamo andare in Svizzera? Dobbiamo combattere perché questo diritto venga riconosciuto. Con la sedazione di fine vita ci siamo ormai vicinissimi, la strada è quella, non penso si tarderà ad arrivarci».

Impossibile non ricordare che il servizio sanitario pubblico ancora non riconosce gli ambulatori di terapia del dolore, nonostante siano una decina quelli attivi in Sardegna, da Sassari a Cagliari: «Sono considerati servizi dell’anestesia, anche se la legge 38 stabilisce che devono esistere strutture semplici dipartimentali di terapia del dolore, strutture autonome dedicate. Credo – avverte Cocco – che l’orientamento di questa amministrazione regionale sia di crearle e sarebbe ora che accadesse».
 

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