La Nuova Sardegna

Il procuratore di Oristano: «Manuel e il delitto del lago: uno choc anche per me»

Enrico Carta
Il procuratore di Oristano: «Manuel e il delitto del lago: uno choc anche per me»

Ezio Domenico Basso: «Ho quell’immagine davanti agli occhi»

12 giugno 2020
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ORISTANO. Dalla finestra si vede via Cagliari a Oristano. Macchine che riprendono a viaggiare dopo settimane, pedoni che si affrettano o passeggiano, vita di tutti i giorni che riparte. Si vede via Cagliari, ma è impossibile non far correre la mente verso quel campo lontano dall’ufficio. Quel campo alla periferia di Ghilarza che invece della vita restituì la morte. Il pensiero, ancora oggi che dall’omicidio di Manuel Careddu sono passati un anno e otto mesi, riporta lì anche chi, dietro toga e codici penali, dovrebbe essere solo il perno su cui poggia le fondamenta la legge. Però, la linea di confine tra il magistrato e l’uomo, in certi casi, non può essere netta, soprattutto quando davanti agli occhi c’è sempre quel corpo che pian piano riemerge dalla terra.

«Si va incontro a tante storie crudeli, spesso tristi quando si fa questo lavoro. Si resta impassibili e distaccati perché questo ci impongono la professione e l’etica. Non mischiamo mai il giudizio personale su chi si ha davanti come imputato e la rigorosa osservanza del codice, però certi casi giudiziari non possono non lasciare un segno». Anche stavolta il procuratore della Repubblica, Ezio Domenico Basso, indossa la mascherina per filtrare l’aria, ma il motivo è diverso. Quella volta, il 10 ottobre 2018, copriva parte del volto perché, assieme al collega Andrea Chelo, ai carabinieri e ai vigili del fuoco, stava assistendo al recupero del corpo del ragazzo di Macomer ucciso un mese prima sulle sponde dell’Omodeo. È passato alle cronache come il Delitto del lago e quasi nessuno si ricorda che non è avvenuto a Ghilarza, bensì nel Comune di Soddì. Dettagli, ormai.

«È stato un momento terribile. Tutti noi che eravamo lì, abbiamo davanti agli occhi un’immagine molto forte perché ai nostri piedi non c’era solo un cadavere. È stato qualcosa di diverso. Ogni omicidio, in quanto tale, contiene in sé una forma di crudeltà, ma in questo caso tutto ha sorpassato quel che potevamo immaginare. Già per come era stato compiuto – prosegue Ezio Domenico Basso – aveva avuto delle modalità incredibili, ma in quei ragazzi è persino mancato il rispetto per il corpo del defunto che è stato profanato senza un minimo di sentimento. Più che le condizioni in cui il cadavere si trovava, è stata l’assoluta assenza di qualsiasi forma di pietà a lasciare il segno. È stato come se avessero avuto davanti un rifiuto e non un coetaneo che avevano ammazzato». A colpi di piccozza e pala.

Se il corpo di Manuel era appena ricoperto di terra, tutta la storia che ha portato alla sua morte aveva invece affondato le proprie radici in profondità; in quello che il procuratore definisce «uno spaccato di società giovanile talmente negativo, che in tanti anni di lavoro, di indagini e di processi mai mi era capitato di trovare. La droga? Certo che c’entra, ma è come quando nelle guerre si confonde la scintilla con le vere cause che generano il conflitto. In questo caso, tutto ha origine nel vuoto assoluto in cui si muovevano le vite dei ragazzi che ne sono stati protagonisti. Non è un caso se nella requisitoria ho citato l’opera di Goya “Il sonno della ragione”. È una storia dominata dalla noia di vivere, per cui si deve trovare per forza una ragione per dare un senso ai propri giorni».

Si va quindi oltre il caso giudiziario perché il solco lasciato dal delitto ha offerto, per chi l’ha vissuto in prima persona, uno spaccato di vita su cui incardinare anche un altro tipo di indagine, quella sociale. «Il concetto di balentìa che tutt’ora permea un certo tipo di società sarda ha comunque avuto un peso – prosegue il magistrato –, però quel che più colpisce è che i ragazzi amassero riunirsi quotidianamente a due passi dalle camere mortuarie dell’ospedale. Per loro il massimo era vedersi lì, di fronte a un self service di vivande. Il concetto di aggregazione sociale si limitava a questo».

Sullo sfondo o forse in primo piano, perché spesso siamo ciò da cui proveniamo, ci sono anche le famiglie ed è anche su questo aspetto che Ezio Domenico Basso si sofferma: «Ci siamo chiesti più volte che ruolo abbiano avuto. Ovviamente non parlo dal punto di vista processuale, ma da quello educativo. Si parla di ragazzi che stavano in giro tutta la notte sebbene l’indomani avessero scuola. Dove avrebbero dovuto acquistare il senso civico se veniva loro permesso di far rientro a casa alle tre del mattino ben sapendo che l’indomani ci sarebbe stata lezione? Sono giovani, è vero, ma a diciott’anni un ragazzo ha già un ruolo attraverso il voto, eppure nulla sanno della società dove vivono. È in questo momento, secondo me, che la legge del più forte diventa quella da seguire».

Eppure, anche mischiando i sentimenti all’astrazione del ragionamento maturato dopo mesi di riflessione, una domanda riemerge: «Ci ho pensato a lungo, ma non trovo risposta: come si può uccidere in quel modo?»

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