La Nuova Sardegna

Barista di Porto Torres suicida, il pm: «Non si uccise per il video hard»

di Tiziana Simula
Barista di Porto Torres suicida, il pm: «Non si uccise per il video hard»

La 22enne si tolse la vita tre anni fa alla Maddalena. Chiesto al Gup il rinvio a giudizio dei due imputati solo per la diffamazione

09 ottobre 2020
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TEMPIO. Michela Deriu, barista di Porto Torres, si era tolta la vita il 4 novembre 2017 nella casa di un’amica che la ospitava, alla Maddalena. Morta suicida a 22 anni. Un gesto estremo che gli inquirenti collegarono alla diffusione di un video e foto che la ritraevano durante un rapporto sessuale con due ragazzi, immagini che sarebbero state mostrate ad altre persone dagli stessi protagonisti di quel filmato. Per i due amici della barista, Mirko Campus, 26 anni, e Roberto Perantoni, 31 anni, la Procura di Tempio aveva chiesto il rinvio a giudizio ritenendoli responsabili, in concorso tra loro, dei reati di diffamazione aggravata e morte quale conseguenza di altro reato. Ma ieri, in udienza preliminare, l’accusa più grave – quella secondo cui la diffusione delle immagini avrebbero contribuito a determinare la sua volontà suicida – è caduta nella requisitoria dello stesso pubblico ministero. Che ha chiesto al gup del tribunale di Tempio Caterina Interlandi il rinvio a giudizio per la diffamazione ma non per la morte come conseguenza di altro reato (“non luogo a procedere”, tecnicamente). Per il pubblico ministero Laura Bassani non ci sono cioè elementi certi che possano provare, neppure in un processo, che Michela Deriu si sia tolta la vita a causa di quelle immagini.

Un’accusa, quella mossa ai due imputati – difesi dagli avvocati Agostinangelo Marras e Letizia Forma (Campus) e Sabina Piga (Perantoni) – che si alleggerisce ulteriormente, considerato che inizialmente l’ipotesi di reato sulla quale la Procura indagava era l’istigazione al suicidio. «Dal nostro punto di vista le richieste del pm sono coerenti con le risultanze processuali», ha commentato l’avvocato Marras. In aula, ad assistere all’udienza, c’erano i genitori di Michela, Barbara Derrù e Gavino Deriu, e la sorella Manuela, costituti parte civile con gli avvocati Gianni Falchi e Arianna Denule. La richiesta del pm ha colto di sorpresa la famiglia, «anche se avevamo comunque preso in considerazione anche questa ipotesi», spiegano i legali. Parte civile e difese discuteranno nell’udienza dell’11 febbraio. Poi, sarà il gup a decidere se mandare a processo o meno i due imputati e per quali reati.

Michela Deriu era stata trovata priva di vita dalla sua amica. I carabinieri della stazione che avevano effettuato i primi accertamenti, avevano trovato vicino al suo corpo due biglietti scritti a mano. In uno di questi, strappato, si parlava di «ricatti e umiliazioni per via di un vecchio film». Un messaggio che rendeva il suicidio di Michela sospetto. Una frase che faceva ipotizzare che l’estremo gesto potesse essere collegato a fatti accaduti in passato che provocavano in lei un’umiliazione insopportabile. L’allora procuratore facente funzioni Gianluigi Dettori, aprì l’inchiesta. Indagini delicate e complesse, svolte dai carabinieri di Olbia e Porto Torres. Michela aveva deciso di togliersi la vita perché istigata a farlo? Era successo qualcosa che l’aveva talmente sconvolta da spingerla al suicidio? Oltre cento persone legate in qualche modo alla vittima vennero sentite dagli investigatori, le indagini furono condotte anche attraverso le intercettazioni telefoniche. A fine novembre, saltò fuori il video hard e i due giovani di Porto Torres e un’altra amica (posizione poi archiviata), vennero iscritti nel registro degli indagati. Le indagini andarono avanti per mesi. Fino alla conclusione delle indagini preliminari. Reati contestati: diffamazione aggravata e morte quale conseguenza di altro reato. Gli stessi contenuti nella richiesta di rinvio a giudizio presentata il 18 luglio 2018 dal sostituto procuratore Paolo de Falco.

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