La Nuova Sardegna

Dal comfort della pensione alla battaglia contro il virus

di Roberto Petretto
Dal comfort della pensione alla battaglia contro il virus

Dopo cinque mesi di stop un medico di famiglia di Nulvi è tornato in prima linea  «Cosa mi ha convinto? L’appello di un malato: dottore, non so che fare. Mi aiuti»

25 novembre 2020
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NULVI. «Quando ti senti dire: «”Dottore, non so cosa fare, mi aiuti”, cosa fai?». Un medico rimane medico anche dopo la pensione, anche quando potrebbe stare a casa in pantofole a guardare serie tv o a fare giardinaggio. Invece decide di uscire, di indossare tuta, mascherina e visiera e di infilarsi nel vortice di una disastrosa pandemia. Perché? Per quel “mi aiuti”, sussurrato da persone impaurite, disorientate.

Nino Tedde ha 70 anni, vive a Nulvi, ha moglie e due figli. Da cinque mesi è in pensione, ma qualche settimana fa ha visto la sua comunità vacillare sotto i colpi della nuova ondata del coronavirus.

Si è messo a disposizione, allestendo, con l’aiuto di due collaboratrici, del Comune e dei barracelli, un drive in dove sottopone a tampone rapido i suoi compaesani. «Perché l’ho fatto? Certi problemi ci sono piovuti addosso. E non mi potevo sottrarre. Ho visto il disorientamento nella mia comunità».

Nino Tedde a Nulvi ha lavorato come medico di famiglia per 40 anni: «Nella parte finale della mia vita professionale ho vissuto la prima ondata della pandemia e so di cosa si tratta. Ho visto la nuova ondata abbattersi in modo molto più violento sul mio paese. A marzo-aprile abbiamo avuto due casi: siamo riusciti a gestire bene la situazione anche grazie al lockdown. Ora è molto peggio, a Nulvi abbiamo 60-60 casi, tra quelli ufficiali dell'Ats e quelli che abbiamo trovato noi. Su 2.700 abitanti».

Un uragano che si è abbattuto sulla piccola comunità: «C’era un senso di smarrimento. La gente non sapeva cosa stava succedendo, non sapeva cosa fare e non aveva, oltre all’amministrazione comunale, dei punti di riferimento. Mi sono riconosciuto nelle difficoltà del medico di famiglia che dovrebbe essere un riferimento, ma che è oberato da tante funzioni, tante incombenze. I medici di famiglia devono assistere anche i pazienti con altre patologie, ma non ce la possono fare, non possono gestire un carico così grande».

Per Tedde le responsabilità di un sistema inceppato vanno cercate altrove: «L’abbandono dei pazienti non è colpa del medico di famiglia, su cui si stanno riversando accuse volgari. Le carenze sono da parte di chi doveva organizzare l’assistenza dei malati Covid a domicilio».

Invece cosa è successo? «Questa assistenza non esiste: provi a attivare un'Usca, se ci riesce. Chiamano me, chiamano il medico di famiglia. Che però non può mettere a rischio gli altri suoi assistiti. Le Usca non ci sono e invece avrebbero risolto. Dovevano essere l'argine ai ricoveri eccessivi».

C’è amarezza nelle parole di un medico di frontiera, ma anche l’entusiasmo per la consapevolezza di essere d’aiuto agli altri: «Durante la mia esperienza professionale i pazienti li ho tenuti per mano nel loro percorso di salute e di malattia. Ma altra cosa è prendere per mano una collettività, con l’ansia e il panico che si diffondono. Per questo non posso starmene a guardare, cerco di aiutare per tentare di limitare le conseguenze dell’epidemia».

Quando le cose hanno cominciato a precipitare Nino Tedde ha preso una decisione: «Ho acquistato 50 tamponi a mie spese. Poi ho proposto all’amministrazione comunale di fare altrettanto. Mi hanno ascoltato. Di più: mi hanno inserito nel Coc come consulente tecnico. Abbiamo allestito un drive in e abbiamo cominciato a fare tamponi. Così con questa iniziativa siamo riusciti a tracciare i contatti stretti, a delimitare i focolai e attraverso le misure di isolamento a creare un argine alla diffusione del virus. Nelle ultime due settimane l'indice positività passato dal 20 per cento al 16. Ora è ancora più basso».

Come ha reagito la famiglia alla sua decisione di tornare “al fronte”? «Non si sono meravigliati quando gli ho detto che mi sarei impegnato in questo progetto. Mi conoscono, sanno che non sono mai stato con le mani in mano. Sono preoccupati, ne sono certo, ma non lo fanno vedere. Anche perché sanno che riesco a essere prudente il più possibile».

Accanto a sé il medico ha due collaboratrici volontarie: Monica Piredda, un’infermiera professionale che ha lavorato con lui per 22 anni, e Giulia Pes, che si era è unita allo staff nell’ultimo anno. In più i barracelli danno una mano a organizzare il tutto. E la gente di Nulvi come ha reagito? «Molto bene e non avevo dubbi. Hanno apprezzato che non li abbia abbandonati, me lo continuano a ripetere. D’altronde non è che uno smette di essere medico. Continuo a seguire alcuni pazienti, anche quattro o cinque positivi al Covid».

Ha paura? «No, non ho paura. Se l’avessi non farei quello che faccio. Mi sento molto motivato nel farlo e sono preoccupato. Ma questo mi serve a essere prudente, a aumentare il livello di guardia».

Dagli eventi negativi può nascere anche qualcosa di positivo: «Cerchiamo di tracciare casi sospetti, ma sottoponiamo a tampone anche chi ce lo chiede per propria tranquillità. In questi casi applichiamo un prezzo politico: 30 euro che destiniamo alla costruzione della sede della scuola calcio Don Bosco di Nulvi. Cerchiamo di far nascere qualcosa per i ragazzi nulvesi da questa tragedia. Di questa struttura potremo dire i nulvesi ci hanno messo il naso».

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