La Nuova Sardegna

2l’inchiestaDENTRO LA CRONACA

di Luigi Soriga
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SASSARI. Quello delle mascherine è un immenso cimitero che si espande giorno dopo giorno. Come un blob che cresce e si gonfia fagocitando in Sardegna circa 800mila dispositivi di protezione al giorno....

27 novembre 2020
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SASSARI. Quello delle mascherine è un immenso cimitero che si espande giorno dopo giorno. Come un blob che cresce e si gonfia fagocitando in Sardegna circa 800mila dispositivi di protezione al giorno. Ogni famiglia li usa e poi li getta nella busta del secco, e poi questo magma indifferenziato viene seppellito nella pancia dell’isola. Ma per smaltire naturalmente una sola mascherina chirurgica, dicono gli scienziati, occorrono mediamente 450 anni. Quello del Covid non è solo uno scontrino di vite umane, è anche un conto salatissimo da pagare all’ambiente.

In Sardegna la situazione è ancora più grave. Infatti ad andare sotto terra nelle discariche sono anche tutte le mascherine contaminate che provengono dalle famiglie con persone positive. Sono assimilate a rifiuti speciali, che dovrebbero essere smaltiti attraverso un inceneritore. Ma se durante la primavera del primo lockdown il termovalorizzatore Tecnocasic di Macchiareddu si faceva carico dello smaltimento, dal 18 settembre l’impianto è in fase di revamping e quindi le linee sono ferme. Significa che ogni Comune della Sardegna, così come prescritto in delibera regionale, deve arrangiarsi con i propri mezzi. Quindi ritirare i bustoni al Covid, portarli in discarica, scavare una fossa e amen.

Ora, per avere un’idea di quanto incida questa produzione di nuovi rifiuti speciali bisogna considerare un dato: in questo momento in tutta l’isola ci sono 12mila 363 persone in isolamento fiduciario, che non possono più differenziare la propria immondizia. Ogni oggetto che finisce nel raccoglitore, infatti, è considerato potenzialmente infetto, esattamente come le mascherine. Quindi plastica, vetro, umido, carta, e qualunque dispositivo di protezione, finisce sigillato dentro una doppia busta, e consegnato nelle mani dell’operatore ecologico, che passerà a ritirare a domicilio due volte alla settimana. Un’operazione molto meno distaccata e asettica di quanto si creda. Il netturbino ha i guanti da lavoro, una tuta di carta e una mascherina chirurgica. L’utente deposita in terra le buste, l’operatore le afferra e con parabola sapiente le lancia dentro il cassone aperto del proprio mezzo. Niente compattatori, perché l’involucro deve rimanere integro e il contenuto non deve essere triturato. Perciò nessuno sa cosa contengano i classici sacchi verdi ritirati in una casa covid. Potrebbero anche nascondere una sola mascherina di appena 4 grammi di peso, ma che converte in rifiuto speciale anche i rimanenti 5 chili di immondizia differenziabile. Che in discarica richiedono un trattamento più complesso e dispendioso. Facciamo l’esempio di Sassari. Il mezzo cassonato di Ambiente Italia la mattina fa il giro delle famiglie covid. Ritira le buste dopodiché rientra alla base di Funtana di lu Colbu. Il camioncino resta parcheggiato in un’area isolata e successivamente andrà a conferire nella discarica comunale di Scala Erre. I rifiuti catalogati come speciali, nella prima fase vengono trattati alla stregua dell’umido: vengono fatti decantare sotto un telone per due settimane, a particolari temperature, in modo da spegnere la carica batterica. Solo dopo è possibile interrare e infine coprire. E l’ulteriore impatto ambientale, per i comuni sardi, sta tutto qui: perché se quelle famiglie in passato svolgevano in maniera corretta la separazione dei rifiuti, adesso sono costrette a mischiare ogni residuo e ogni oggetto nel medesimo contenitore. E questo inciderà negativamente nella percentuale della differenziata di ogni amministrazione sarda, che in mancanza di un termovalorizzatore di riferimento dovrà appunto rivolgersi a una delle sette discariche disponibili ad accogliere i rifiuti speciali: quelle di Sassari, Olbia, Ozieri, Macomer, Arborea, Villacidro e Iglesias.

Nel resto d’Italia i comuni sono più fortunati, perché in ogni regione esiste un inceneritore attivo e la normativa ministeriale può essere applicata: ovvero smaltimento in inceneritore per mascherine di soggetti positivi o in quarantena domiciliare, in altri termovalorizzatori i dispositivi sanitari, in discarica mascherine di utilizzo quotidiano.

C’è anche il capitolo rifiuti sanitari, cioè le tonnellate che provengono da tutti gli ospedali e presìdi Ats disseminati nell’isola. Per fortuna in questo caso esiste un termovalorizzatore di riferimento che smaltisce tutti i dispositivi di protezione: è l’impianto Eco Travel di Elmas. Le procedure sono senz’altro costose, ma assolutamente necessarie. Se anche questo immenso stock di dpi venisse fagocitato dalla pancia dell’isola, le 7 discariche non sarebbero state più sufficienti da tempo. Solo nell’Aou di Sassari giornalmente vengono distribuite, tra operatori e pazienti, circa 6mila mascherine chirurgiche. Sono, invece, 2-3 mila al giorno le mascherine FFP2 consegnate agli operatori, mentre 1.000 le FFP3. E ancora: le tute assegnate al giorno sono 500, mentre tra camici dpi e monouso ne vengono distribuiti circa 1500 al giorno. Infine, per quanto riguarda i guanti, vengono consumati quotidianamente 30mila pezzi. E parliamo solo dell’ospedale Santissima Annunziata, al quale si aggiungono tutti gli altri presidi in capo all’Ats. Una valanga di rifiuti speciali inimmaginabile.

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