La Nuova Sardegna

Beppe Pisanu: «Moro condannato a morte perché era un innovatore»

Alessandro Pirina
Beppe Pisanu: «Moro condannato a morte perché era un innovatore»

L’ex ministro ricorda lo statista Dc nel 43esimo anniversario del suo assassinio. «Aveva nemici in Italia e fuori. Cossiga? Gli sfuggì la scelta di qualche consulente»

11 maggio 2021
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SASSARI. Un busto di Aldo Moro domina lo studio di Beppe Pisanu. Alla parete invece una vecchia stampa inglese raffigura Tommaso Moro, mentre in una cornice l’ex ministro dell’Interno è tra il grande statista Dc e l’ex segretario Benigno Zaccagnini, che durante la Resistenza prese proprio il nome dell’umanista che tenne testa a Enrico VIII e fu proclamato santo dalla Chiesa. Il nome Moro, dunque, è stato in qualche modo la stella polare di Pisanu sia dal punto di vista della fede che della cultura e della politica. E il 9 maggio per lui, che di Aldo Moro fu uno dei più stretti collaboratori, resta una delle giornate più drammatiche e dolorose della sua vita.

Senatore Pisanu, che ricordo ha di quel 9 maggio 1978, quando fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro?
«Seguivo accanto a Zaccagnini i lavori della direzione centrale della Dc che era stata convocata in seguito all’ultimo raggelante comunicato delle Brigate rosse: “concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”. La riunione era iniziata da poco quando fui chiamato al telefono per una comunicazione urgente. Avevano trovato il cadavere di Moro rannicchiato nel bagagliaio di una Renault rossa in via Caetani quasi alla stessa distanza da Botteghe Oscure (sede del Pci, ndr) e Piazza del Gesù (sede della Dc, ndr). Sconvolto, rientrai nella sala della direzione centrale e riferii come potei la notizia a Zaccagnini. Lui si alzò, pronunziò poche parole e poi ci fu silenzio. Penso che in quel momento cominciò la fine della Dc e della Prima repubblica».

Il 16 marzo alla Camera Ugo La Malfa dichiarò che più in alto di così le Br non potevano colpire e addirittura evocò lo stato di guerra: perché Moro era così importante?
«Perché era ormai diventato il principale equilibratore del sistema politico italiano. In singolare sintonia con Enrico Berlinguer stava portando a compimento un disegno ambizioso di “solidarietà nazionale” che impegnava unitariamente tutte le forze democratiche su due grandi obiettivi. Il primo era quello di fronteggiare la terribile congiuntura economica, sociale e politica che attanagliava il Paese. Basti ricordare che il Pil era meno 4 per cento e che l’inflazione marciava verso il 20, mentre il terrorismo insanguinava le strade, mettendo a repentaglio le stesse istituzioni democratiche. Il secondo obiettivo era quello di riconciliare definitivamente le due maggiori forze popolari, la Dc e il Pci - che alle elezioni del 1976 avevamo raccolto insieme oltre il 73 per cento dei voti -, e creare le condizioni per una moderna democrazia dell’alternanza. E cioè una democrazia matura nella quale democristiani e comunisti, non più inchiodati agli schemi della “guerra fredda”, si sarebbero potuti tranquillamente alternare al governo del nostro Paese. Questo disegno aveva nemici potenti in Italia e all’estero. Per questo fu condannato a morte il suo principale artefice».

Ma chi era Aldo Moro?
«Moro era innanzitutto un cattolico di profonda fede. Una fede vissuta intensamente, quotidianamente, senza la benché minima ostentazione e sempre accompagnata da una concezione severa della laicità della politica e dello Stato. Ha scritto un insigne filosofo del diritto, padre Italo Mancini: “con un paradosso si potrebbe dire che il meno teologico dei politici italiani, Aldo Moro, ha realizzato la situazione teologica più feconda tra fede e politica. Moro fu il più laico dei politici cristiani”. Si deve partire da qui se si vuole capire la ricca esperienza umana e politica che colloca Moro tra i più grandi protagonisti della nostra storia repubblicana».

Come vi eravate conosciuti e come si era consolidato il vostro rapporto?
«Lo conobbi nei primi anni Sessanta. Ero dirigente nazionale del Movimento giovanile della Dc e Moro, allora segretario politico, seguiva noi giovani con particolare premura e attenzione. Non fu difficile avvicinarlo, ascoltarlo e ammirarlo. Quando intorno al 1965 cominciò a delinearsi il gruppo degli “amici dell’onorevole Moro” io e Nuccio Fava (futuro direttore del Tg1, ndr) fummo i primi dirigenti giovanili che vi aderirono. Nel 1972 fui eletto alla Camera con il decisivo sostegno dei morotei sardi e Moro mi accolse affettuosamente come il più giovane dei suoi amici parlamentari. Tre anni dopo lui e Zaccagnini mi chiamarono alla guida della Segreteria politica nazionale della Dc e divenni così loro stretto collaboratore. In quella posizione vissi gli anni più belli e fecondi ma anche più dolorosi della mia quarantennale esperienza parlamentare. Moro e Zaccagini sono insieme a Paolo Dettori gli uomini politici che ho più ammirato e amato nella mia vita».

A parte lei, qual era il legame di Moro con la Sardegna?
«Se ben ricordo venne a trovarci per la prima volta da segretario della Dc e ci sostenne attivamente nella battaglia per il Piano di rinascita. Ricordo in particolare che ci suggerì di legare l’idea della rinascita ai problemi della gioventù. Una specie di Next generation Eu ante litteram. Le sue visite nell’isola, e specialmente a Sassari, si fecero più frequenti dopo la costituzione del gruppo moroteo per iniziativa di Paolo Dettori e Pietrino Soddu. Moro li stimava molto, apprezzava il loro approccio alla questione sarda perché come Piersanti Mattarella in Sicilia collocavano le rivendicazioni regionali nel contesto più ampio di una politica nazionale per il Mezzogiorno, contro “la storica ingiustizia”».

Com’erano i rapporti tra Moro e Francesco Cossiga?
«Erano rapporti di vera amicizia. Lo dico per conoscenza diretta, non per sentito dire. Cossiga era un uomo di grande intelligenza e vasta cultura. Consapevole delle sue risorse, non temeva confronti con nessuno. E tuttavia subiva il fascino intellettuale e politico di Aldo Moro come tanti altri. Dal carcere oltraggioso delle Br Moro si rivolse a lui fin dalla prima lettera con toni amichevoli e Cossiga fece tutto il possibile per seguire i suoi consigli. La verità è che nei terribili 55 giorni che vanno dalla strage di via Fani all’assassinio di Moro Cossiga si trovò nella posizione più esposta a tensioni, incomprensioni e conflitti di ogni genere. Quella di ministro dell’Interno. E nella tribolazione di quei giorni qualcosa gli sfuggì di mano. Per di più tra i suoi consulenti capitarono personaggi che non erano né amici né estimatori di Aldo Moro. Ma se Cossiga commise errori li pagò a durissimo prezzo sul piano umano, mentre sul piano politico si caricò anche di responsabilità e colpe non sue, dimettendosi da ministro dell’Interno».

Qual era l’impatto della politica di Moro sul piano nazionale e internazionale?
«Moro tenne sempre stretto il legame tra politica interna e politica estera. Sul piano nazionale la sua linea di fondo mirava ad ampliare le basi della democrazia italiana e a favorire l’accesso dei ceti popolari ai benefici dello sviluppo economico-sociale. Questo è il senso della sua marcia dal centrismo al centrosinistra e alla solidarietà nazionale. Nel contesto internazionale Moro considerava l’Italia una potenza intermedia di forte vocazione europeista in grado di portare contributi importanti alla distensione e alla pace “in un mondo sempre più integrato e interdipendente”. Questo spiega il suo impegno per il dialogo islamico-cristiano, per il riconoscimento della Cina e per l’elevazione dell’Europa unita al rango di “quarto polo della politica mondiale”. È una visione ancora attuale, a oltre cinquant’anni dalla sua formulazione».

E dove erano gli avversari e i nemici di questa visione?
«Erano nella sinistra rivoluzionaria italiana e anche in quella “destra profonda” che Moro ci aveva additato e che forse ancora oggi si annida nei meandri della società e delle istituzioni, sempre ostile per sua natura a ogni cambiamento. All’estero i nemici di Moro erano nei settori più retrivi dell’Alleanza atlantica e del Patto di Varsavia, strenui difensori per ragioni opposte ma speculari della logica di Yalta, che aveva diviso il mondo in due blocchi contrapposti, vigilati dai due gendarmi dell’universo, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica».

Dunque, stavano da quelle parti i mandanti dell’assassinio di Moro?
«Nessuno ha mai raccolto prove convincenti a questo proposito. È però del tutto evidente che i crimini delle Br fecero comodo agli opposti estremismi di sinistra e di destra, interni e internazionali».

Cosa direbbe Moro dell’attuale situazione politica italiana?
«Dovrei avere la sua intelligenza e il suo spirito profetico per risponderle. Nel mio piccolo direi che sosterrebbe il governo di unità nazionale ed esorterebbe i diversi gruppi parlamentari a tenere in secondo piano gli interessi di parte e semmai a competere tra loro nella ricerca delle soluzioni migliori per i problemi del Paese. Di sicuro punterebbe sulle “forze del mutamento”: le donne, i giovani, i lavoratori. E riporrebbe in loro la sua speranza civile».

E oggi chi è Moro per lei?
«Uno spirito intelligente e gentile che mi accompagna e mi indica la via del
bene comune».

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