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Marcello Acciaro: «I miei 90 giorni all'inferno tra deliri e paura di morire»

Silvia Sanna
L'ex responsabile dell'Unità di crisi del nord Sardegna Marcello Acciaro
L'ex responsabile dell'Unità di crisi del nord Sardegna Marcello Acciaro

Il medico sassarese ex responsabile dell'Unità di crisi per il nord Sardegna racconta: «Pensavano che non ce l’avrei fatta. Visioni, deliri, paura. Ora mi riprendo la vita»

03 agosto 2021
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I sopravvissuti dicono che guardare la morte negli occhi cambia la prospettiva, e che il ritorno alla vita assomiglia a una riscoperta. Marcello Acciaro per la prima volta dopo quattro anni andrà in ferie e riprenderà in mano la sua grande passione: il sax. Il medico sassarese, 59 anni, ex responsabile per il nord Sardegna dell’Unità di crisi contro il Covid, stava per essere ucciso dalla malattia che combatteva in prima fila. In un’intervista Acciaro racconta la scoperta del contagio, il rapido precipitare della situazione, i tre mesi passati tra la vita e la morte. Poi la guarigione, le dimissioni dal Mater Olbia, il ritorno a casa: «Ho celebrato il mio funerale da vivo, ora riassaporo la vita».

Nella sua vita parallela ci sono medici che pilotano gli elicotteri e infermieri che si muovono silenziosi in uno spazio ovattato. C'è lui legato e impaurito, la gola che brucia per una sete terribile, la voglia di muoversi e una forza enorme che lo schiaccia, come un masso sullo stomaco. Ma c'è anche quella carezza sul viso, la mano gentile che lo lava, la sensazione di fresco e pulito, lui che all'improvviso non ha più paura e si sente protetto. Quando la moglie Barbara gli chiede "che giorno è oggi?", ci pensa un po' e poi dice: «Saranno i primi di febbraio, è passato almeno un mese». Un mese dal 31 dicembre, la notte di Capodanno, quando è iniziata la sua vita parallela fatta di sogni, incubi e visioni, con la morte che lo prende più volte per mano e poi lo lascia andare. Il calendario dice invece che è il 13 dicembre: è il terzo giorno di ricovero al Mater Olbia, il numero 43 in ospedale da malato di Covid: Marcello Acciaro è approdato alla metà del percorso, che si concluderà solo il 30 gennaio, 90 giorni dopo l'arrivo dell'ambulanza sotto casa. 25 ottobre 2020. Un collega ha la febbre, Marcello Acciaro non ha sintomi ma fa comunque il tampone: anche lui scopre di essere positivo al Covid. Aveva messo in conto che potesse accadere, anche se era stato attentissimo: siamo nel pieno della seconda ondata iniziata dopo Ferragosto 2020, e il dottor Acciaro, direttore sanitario dell'Areus e responsabile dell'Unità di crisi per il Nord Sardegna, è andato a verificare la situazione nei principali focolai, dalla Costa Smeralda alla Maddalena. Lì non accade nulla, in ufficio forse qualche cautela salta. Il 25 ottobre Acciaro inizia la terapia domiciliare sotto il controllo dei medici dell'Usca. «Le cose non vanno bene, la saturazione scende, decidono di ricoverarmi. Arriva un'ambulanza: vado via veloce, un saluto frettoloso a mia moglie, di cui poi mi pentirò».

È passata una settimana: il 2 novembre Acciaro entra nel reparto di Malattie Infettive dell'Aou di Sassari con una fame di ossigeno che cresce. «Mi mettono il casco CPAP, è fastidiosissimo. Non basta, mi girano a pancia in giù. Sto così per 10 giorni ma la polmonite bilaterale peggiora, la saturazione crolla sino a 85, poi 82».12 novembre 2020. È il giorno del trasferimento in Terapia intensiva. Ed anche quello in cui il cervello inizia a viaggiare per conto suo e la realtà parallela a prendere forma. «Chiamavo dal letto, gridavo non so bene cosa, mi sono alzato e barcollavo, chiedevo aiuto, non sapevo dove fossi». Lo sedano e lo intubano, la luce si spegne. «Le mie condizioni precipitano velocemente. Sono pieno di liquidi, l'indice p/f scende sino a 120». È il valore che indica l'ossigenazione nel sangue, in un soggetto sano supera 350. «I medici chiamano mia moglie, le dicono che le mie condizioni sono gravissime, è molto improbabile che ce la faccia, deve prepararsi al peggio. La valutazione è corretta: io stesso, guardando la cartella clinica, mi sarei dato per spacciato».25 novembre. Invece accade qualcosa di assolutamente insperato e imprevedibile: «Mi negativizzo quando sono ancora intubato. I bronchi sono pieni di liquidi, allora mi fanno i lavaggi sino a quando il virus scompare. Comincia la lunga e lenta risalita».

Prima il trasferimento in un'altra terapia intensiva, all'ospedale Civile, poi lo svezzamento dai farmaci: «Vengono ridotti gradualmente sino all'11 dicembre. In quelle due settimane vivo sospeso: vedo e riconosco alcune persone, sono colleghi e infermieri con cui ho lavorato, ma non riesco a contestualizzarli. La mia memoria non fissa gli eventi, sono sveglio ma sogno: quasi sempre cose terribili, ho la sensazione di essere prigioniero, supplico mia moglie di portarmi via. Sto male, mi danno l'ossigeno a intermittenza, ho sete: chiedo acqua e birra, ho una voglia incredibile di birra».11 dicembre 2020. È il giorno del terzo trasferimento: «Vado al Mater Olbia ed è un po' come tornare a casa. Sono stato direttore sanitario lì ma ricordo pochissimo: rispondo al saluto dei medici, so di conoscerli ma non li colloco in un tempo e in un luogo precisi. Il 13 dicembre mia moglie Barbara mi chiede che giorno è. Scopro che la mia realtà virtuale iniziata il 31 dicembre, la notte di Capodanno, non esiste. Sono confuso ma sento una fortissima spinta interiore: voglio farcela. Ho perso 30 chili, non ho più neanche un filo di muscolo, ho il catetere, gli infermieri mi lavano e mi fanno la barba. E ho una cannula in gola perché sono tracheostomizzato. Decido di iniziare da lì: voglio bere da solo. I medici mi dicono "ok proviamo". Per tre giorni mi fanno bere due sorsi di acqua, subito dopo devo tossire. Va tutto bene, mi tolgono la cannula e richiudono. Poi attacco con la seconda richiesta: voglio lavarmi da solo e togliere il catetere. Non mi reggo in piedi, mi sorreggono in due sino al bagno e la prima doccia dura più di un'ora: è il momento più bello, è il mio ritorno alla dignità. Poi esagero: mi alzo da solo, cado, mi fratturo una vertebra e mi mettono il busto. So di avere fatto impazzire mezzo ospedale, so che alcuni infermieri avevano paura di me perché conoscevano il mio carattere... A tutti dico grazie per la pazienza e l'impegno, se sono qui è merito loro».

30 gennaio 2021. È il giorno delle dimissioni dal Mater Olbia. «Il ritorno a casa è dolcissimo, anche se in sedia a rotelle. Inizio subito l'altro percorso, la fisioterapia che si concluderà il 22 marzo. Nel frattempo continuo ad ascoltare i racconti, in un flash back che mi riempie di emozione. Sento il calore intorno a me, l'amicizia vera. Provo tanta gratitudine. Ho celebrato il mio funerale da vivo, ora riassaporo la vita».

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