La Nuova Sardegna

Urgenza/Il reportage

Sassari, i forzati del Pronto soccorso: 10 minuti per salvare una vita

di Luigi Soriga
Sassari, i forzati del Pronto soccorso: 10 minuti per salvare una vita

Pomeriggio nel reparto dai ritmi disumani, ogni medico deve gestire insieme 10 pazienti

08 dicembre 2023
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Sassari Anche il pronto soccorso ha un suo battito cardiaco. E non è per nulla regolare. Alle 14, a Sassari inizia la tachicardia. Gli infermieri hanno l’udito allenato, sentono la sirena da un chilometro. Quando smette di ululare significa che è già in viale Italia e un altro codice giallo sta per entrare. Con i rossi c’è già il pre-allarme via telefono, il 118 avverte l’equipe che deve essere pronta ad accogliere chi rischia la vita. Ecco dalle 14 alle 15,30, uno dietro l’altro approdano quattro mezzi di soccorso con a bordo 4 codici rossi. Tradotto: i 4 medici di turno, che hanno tra le mani già 10 pazienti a testa, li devono mollare tutti, a meno che qualcuno non sia moribondo, perché i rossi hanno funzioni vitali compromesse, e ogni secondo diventa cruciale. Significa che la catena di montaggio che ogni santo giorno aggiusta 140 vite, di punto in bianco va in cortocircuito. L’attività del pronto soccorso diventa un elettrocardiogramma impazzito. Se non sei ben corazzato, rischi il burnout.

La dottoressa Carlotta Chessa, 39 anni, sassarese, capoturno, ha la sua ricetta per sopravvivere: «Ogni giorno mi porto a casa una storia che racchiude in sé il senso della mia giornata. Può essere il ragazzo ferito, l’ubriaco che continua a cantare mentre lo visito. O magari la vecchina che mi chiede di stare ancora un po’ qui, mentre le tengo la mano, perché con noi si sente meno sola». Senza queste piccole storie rubate, infagottate e portate via di nascosto, difficilmente avrebbe stretto i denti per 15 anni nel burnout dell’emergenza-urgenza. «Ancora ho energie, e il mio mestiere non lo cambierei per niente al mondo. L’ho scelto quando avevo 5 anni, e abitavo nel centro storico di Sassari. Era pieno di ragazzi tossici in overdose. Vedere quei giovani per terra, morti, che si rianimavano dopo un’iniezione, per me era un miracolo. Da grande farò questo, pensavo. Ed eccomi qui». Fare il medico in prima linea in fondo è una sana forma di masochismo. Non si guadagna tanto, si lavora senza fermarsi un secondo, sei esposto ad insulti e aggressioni, ti becchi più denunce che gratificazioni: «Il paziente alla fine ringrazia il cardiologo che l’ha dimesso, ma si scorda di quelle due ore in pronto soccorso che hanno cambiato il destino». Il lavoro dei medici, qui in corsia, assomiglia a quei giocatori di scacchi talmente bravi, che sfidano dieci avversari in contemporanea: la testa rimane arroccata su ogni scacchiera, e hai pochi secondi per fare la mossa. Però in pronto soccorso, sulle 10 scacchiere, ci sono in ballo le vite delle persone, e mediamente il medico ha solo 10 minuti da dedicare a ciascuna, per fare la mossa decisiva. Non conosce niente di quella partita, parte da zero e deve essere veloce, fare le domande giuste, capire tutto subito. Un’andatura da 10 pazienti all’ora, 50 al giorno, e se arriva il codice rosso è come se scattasse il semaforo: si ferma tutto e si riparte solo dopo averlo stabilizzato. E poi c’è l’incombenza burocratica, compilare i referti, le richieste di ricovero o di accertamenti, i fogli di dimissioni. Chiamare il collega del reparto per sapere se c’è posto, trovare il radiologo disponibile, spesso litigare, perché il pronto soccorso ha un ritmo, ma l’ospedale ne ha un altro.

Il paradosso è che il tempo che il medico dedica all’assistenza, quello delle mani sul paziente, alla fine si sostanzia forse nel 40%. Così avanti per 7 ore, in una catena di montaggio spesso insostenibile. Questo perché chiunque bussi al pronto soccorso, la porta viene aperta. E infatti entra un’umanità malconcia e variegata, 48mila accessi all’anno. Una persona su tre, in media, almeno una volta all’anno, si presenta all’ingresso dell’ospedale. Ad accoglierli, e a passarli ai raggi x col proprio occhio clinico, sono gli infermieri del Triage.

Angela Massidda, 42 anni, di Bosa, deve fare un check-up del paziente in una manciata di minuti. Al triage si compila un biglietto di ingresso, che oltre alle generalità, contiene un primo identikit della patologia. «Il segreto è quello di stabilire subito sintonia con chi hai di fronte: un sorriso, una parola per sciogliere il ghiaccio, empatia». Il Pronto Soccorso non è solo un salvagente sanitario, è un approdo sociale. Infatti i medici di base sono pochi e hanno migliaia di pazienti, e le visite a domicilio o nelle case di cure si fanno più rare. Quindi le ambulanze non fanno che portare anziani, con le loro copertine di lana fatte a uncinetto che coprono le gambe. Molti non sono lucidi, cogliere i sintomi è difficile, non collaborano. E soprattutto una volta presi in carico, non possono essere dimessi. Anche le esistenze alla deriva approdano all’ospedale. Le forze dell’ordine fermano un ubriaco? Lo accompagnano al pronto soccorso. Un clochard non si sente bene? Ecco un nuovo paziente in attesa. Al triage, con pazienza, catalogano tutti e gli danno un codice: «Dottorè, non mi sento bene. Mi viene da svenire, ho paura”. È una donna di mezza età, ha problemi psichici e almeno una volta alla settimana timbra il cartellino al Pronto Soccorso. La conoscono tutti: le misurano la pressione, poi la fanno sedere su una carrozzina, e lei è contenta. Si sente protetta.

Con tutto questo via vai, con caselline gialle, verdi e rosse che si illuminano sul monitor ogni minuto, in questo porto franco dovrebbe regnare il caos. Ma è un caos organizzato, sistemato in tanti cassetti. Non vedi barelle e malati sparsi qua e là. Se passeggi nei corridoi ti sembra regni la quiete. Ma è apparenza. Appena apri una porta, che sia quella dei gialli, rossi, o verdi, trovi stanze piene, letti occupati, macchinari in funzione, camici in movimento. È un moto perpetuo, che non concede respiro. «A volte non abbiamo il tempo di andare in bagno», dicono i medici e gli infermieri. Che stringono i denti, e nonostante tutto, vanno avanti.

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