Arturo Lorenzoni: «Le rinnovabili sono un’opportunità per la Sardegna: i Comuni siano al centro delle scelte»
Il docente di Padova: «Inutile puntare sul gas o sui combustibili fossili. I territori possono essere protagonisti, come accaduto in altre Regioni»
Sassari Il movimento di popolo contrario all’installazione degli impianti a fonti rinnovabili che si è sviluppato in Sardegna negli ultimi mesi ha dell’incredibile per diverse ragioni. Provo a illustrarle sulla base di alcuni dati, che ai miei occhi appaiono oggettivi ed eloquenti, cercando di dare una prospettiva costruttiva ai fattori di preoccupazione che oggi paralizzano la Regione.
Partendo da ciò che si è deliberato a livello internazionale e nazionale, per inserire le scelte richieste su scala regionale nel quadro complessivo di riferimento. La direzione della decarbonizzazione dell’economia assunta in Europa con Repower EU, di avere al 2030 il 42,5% di energia da fonti rinnovabili, non è ideologia. È un percorso razionale per supportare la leadership tecnologica europea con l’innovazione, unico strumento per fronteggiare la concorrenza industriale del sud est asiatico. Solide ragioni economiche dunque, prima che ambientali.
La Sardegna rappresenta l’8% della superficie complessiva dell’Italia, ha il 2,8% dei consumi di energia elettrica, il 4,5 % della potenza fotovoltaica installata e il 3,7% del numero di impianti italiani a dicembre 2023. La produzione di fotovoltaico per chilometro quadrato è pari a 61 megawattora contro una media nazionale di 91,2. Difficile parlare di aggressione o invasione.
Anche guardando al target assunto dal cosiddetto decreto “Aree Idonee” del 21 giugno 2024 per recepire gli impegni in Europa di decarbonizzazione al 2030, i 6,2 gigawatt di potenza di impianti rinnovabili aggiuntivi rispetto a quanto installato a dicembre 2020 rappresentano il 7,8% degli 80 gigawatt assegnati alla totalità delle regioni. In precisa corrispondenza con la quota di superficie. Il criterio di ripartizione sulla base delle risorse energetiche e della dimensione territoriale, assunto dal Ministero, appare sensato e condivisibile.
È innegabile d’altra parte che le ottime condizioni anemologiche e di insolazione portino gli investitori a guardare con interesse al territorio sardo per la realizzazione degli impianti. Come si è guardato al Trentino Alto Adige, alla Lombardia o al Veneto per quanto riguarda gli impianti idroelettrici, o alla pianura padana per gli impianti a biogas. Dove una risorsa naturale è presente ci si attrezza per valorizzarla e crearne valore per il territorio, andando ben oltre il fabbisogno del territorio stesso. Molti territori montani dell’arco alpino devono proprio alla loro ricchezza d’acqua le risorse economiche per servizi di qualità ai cittadini e al territorio altrimenti inaccessibili. Ne sanno qualcosa i cittadini valdostani, per fare un esempio, che da anni beneficiano di generosi sostegni da parte della regione alimentati dal cosiddetto “oro blu”.
In presenza di un target regionale vincolante, si deve operare per far crescere la produzione rinnovabile entro il 2030. Il tema interessante è che questo obiettivo di carattere ambientale oggi risulta conveniente anche dal punto di vista economico. Se un decennio fa i nuovi impianti alimentati da sole e vento avevano bisogno di sostegno economico, oggi rappresentano l’opzione più conveniente per coprire la domanda di energia. Portafoglio e ambiente vanno d’accordo, finalmente.
Non solo, ma l’economia associata a tali investimenti ha una dimensione locale sconosciuta ai grandi progetti tradizionali alimentati con le fonti fossili. Se una centrale a gas da 800 megawatt comporta un investimento da un miliardo, alla portata solo di grandi investitori e richiede competenze disponibili sono in poche aziende, spesso straniere, sviluppare e mantenere gli impianti eolici e solari è alla portata di ciascun territorio. Si può generare lavoro e valore locale, quando si attivano le sinergie possibili tra impresa e amministrazione e nel procedimento autorizzativo si concordano convenzioni di mutuo interesse.
Il tema dunque non è tanto se procedere o meno con questi investimenti, quanto piuttosto come assicurare che il valore creato dalla risorsa energetica giunga ai cittadini. L’energia elettrica prodotta da questi impianti costa meno dell’energia fossile, che oggi rappresenta oltre il 70% della produzione di elettricità in Sardegna e può essere ceduta con contratti di lungo termine, anche decennali a prezzo fisso, dell’ordine degli 80 euro a megawattora, decisamente interessanti rispetto al prezzo medio del mercato all’ingrosso 2023 di 127 euro, oggetto peraltro a forti e imprevedibili variazioni.
Le interconnessioni elettriche sottomarine tra la Sardegna e il continente, in corso di realizzazione da parte di Terna, sono dunque investimenti essenziali sia per assicurare un servizio di qualità all’isola, impossibile altrimenti quando il rapporto fossili-rinnovabili sarà rovesciato, con la prevalenza di energia prodotta senza emissioni di gas serra, sia per creare nuove opportunità per valorizzare le risorse di cui l’isola è ricca, come il vento in mare, che oggi, grazie alla recente evoluzione tecnologica, può essere utilizzato per produrre energia pulita senza interferenze con la vita delle persone. Se fino a ora l’eolico in mare si è sviluppato nei bassi fondali del mare del Nord, dove le torri sono infisse nel fondale, oggi con la capacità di costruire torri galleggianti anche il Mediterraneo, più profondo, diviene accessibile a decine di km dalla costa, senza intrusione visiva dalla costa. Una nuova economia sta nascendo intorno all’eolico in mare del Mediterraneo tra Spagna, Francia, Italia e Grecia: chi mette a disposizione per primo le infrastrutture richieste alla costruzione e manutenzione degli impianti si assicura un’attività economica di grande rilevanza.
Difficile invece da capire l’aspirazione a un investimento sulla rete gas: un’infrastruttura che veicola un combustibile il cui uso è destinato ad azzerarsi in un intervallo compreso tra i 20 e 40 anni come può essere interessante, da qualsiasi punto di vista? Anche perché le alternative ci sono e sono più economiche, più pulite, più vantaggiose per la comunità locale. Si pensi solamente al solare termico per la produzione di calore negli usi civili e industriali a bassa temperatura, un settore estesissimo in gran parte del Mediterraneo e quasi assente in Italia e in Sardegna.
Naturalmente è logico avviare il processo di transizione a partire dalle nuove produzioni integrate ai carichi, con gli impianti sui tetti e sulle aree urbanizzate, come i parcheggi, ma l’urgenza della transizione energetica richiede laicità anche nella valutazione degli impianti a terra, in aree non utilizzate per le attività agricole che devono essere individuate dalla normativa regionale sulle aree idonee. Se per assurdo si conseguisse il target 2030 tutto con impianti posizionati a terra, cosa che non ha logica né economica né sociale, ma da l’idea delle grandezze in gioco, i 6,2 gigawatt coprirebbero lo 0,53% della Superficie Agricola Utilizzata. Nessuno pensa di usare i terreni agricoli, ma è importante avere a mente le dimensioni delle azioni da intraprendere. È evidente a tutti che questo processo di transizione deve essere concertato con la popolazione e guidato, non lasciato all’iniziativa del mercato, che difficilmente riesce a conseguire il massimo beneficio per la collettività. E in questo senso le sinergie tra imprese e amministrazione di cui si diceva sopra devono essere sollecitate proprio dagli amministratori. A cominciare dall’assumere una regia regionale per concordare dei criteri per ripartire il target regionale sulla totalità dei Comuni, tenendo conto della disponibilità di territorio e di risorse naturali.
I 6,2 gigawatt da installare in Sardegna non sono un onere sulla regione: sono una responsabilità di ogni sindaco e di ogni cittadino e tali devono essere sentiti. Ogni Comune deve sapere di avere un ruolo e una parte del target per superare la dipendenza pesante dai combustibili fossili che caratterizza oggi il settore energetico sardo. Solo così le amministrazioni comunali possono divenire partner degli investitori, non controparti, quando non siano esse stesse ad investire, facilitando le procedure e selezionando le soluzioni di maggior valore per il territorio. La definizione delle aree idonee è un passaggio privilegiato per disegnare una strategia capace di creare valore sociale, che non può essere perduta.
*Docente di Economia dell’Energia e Mercati Elettrici, Università di Padova