La Nuova Sardegna

L’intervista

All’università le teorie queer: «Seminari con più di 200 iscritti»

di Luigi Soriga
All’università le teorie queer: «Seminari con più di 200 iscritti»

Nel corso di Scienze Politiche a Sassari si parla di gender, transfobia e femminicidi. Il docente Federico Zappino: «I ragazzi sono informati e incuriositi da questi argomenti»

07 ottobre 2024
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Sassari L’educazione sessuale e “l’ideologia gender” difficilmente approderanno tra i banchi scolastici. La recente risoluzione di Rossano Sasso (Lega), approvata alla Camera, fodera bene gli istituti dell’obbligo e le superiori da un cambiamento di prospettiva rispetto al concetto di famiglia tradizionale. All’Università di Sassari, invece, già da due anni la parola queer è stata istituzionalizzata e scritta nero su bianco in un corso di studi. Lo tiene Federico Zappino, 40 anni, filosofo e attivista, che ha tradotto le opere di Judith Butler, Eve Kosofsky Sedgwick e Monique Wittig, ha scritto numerosi testi, e ha contribuito in modo decisivo all’introduzione del pensiero queer in Italia. Nel corso di laurea in Scienze Politiche insegna: Teorie di genere e queer. Oltre 200 iscritti ai seminari sulla violenza di generei, una risposta degli studenti oltre le aspettative.

Come se lo spiega?

«Il tema suscita un grande interesse, e i ragazzi hanno già una conoscenza pregressa del tema. Si informano sui social, i fatti di cronaca sui femminicidi catalizzano l’attenzione. C’è grande indignazione. Mi ha stupito però che abbiano assistito alle lezioni persone che non dovevano sostenere alcun esame, magari provenienti da altri dipartimenti, o più semplicemente una platea esterna e curiosa. Questo è importante, perché l’università da due anni è diventata un luogo pubblico nel quale confrontarsi e dibattere su temi importanti come l’omofobia, la transfobia, la teoria di genere, e tutti i temi correlati a 360 gradi che investono ogni ambito della società. Parlare di gender significa addentrarsi nelle diseguaglianze tra uomini e donne, discutere sulla distribuzione della ricchezza e del potere, sull’aborto, sul rapporto tra maggioranze e minoranze. La questione queer è un prisma dentro il quale leggere molteplici sfaccettature della società. L’obiettivo del mio corso non è solo veicolare una serie di conoscenze. Piuttosto mi interessa fornire lo sguardo critico che ancora manca, per andare alla radice dei fenomeni, come la violenza».

Una parte fondamentale del corso è riservata ai seminari e ai dibattiti. Nel dialogo tra gli studenti le è mai capitato di percepire omofobia o transfobia, o maschilismo?

«Già la denominazione del corso fa una sorta di selezione all’origine: difficile che attiri una maschilità problematica. Si sentirebbero una minoranza. Ci sono diversi studenti che fanno parte della comunità gay e lgbt+, alcuni con un trascorso di attivismo, con l’impegno politico nei movimenti. Ma tanti altri si avvicinano solo per curiosità, per avere un confronto stimolante su tematiche attuali e complesse».

E fuori dall’aula universitaria, nella realtà quotidiana, cosa vede?

«Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una recrudescenza dei rapporti sociali improntati sul maschilismo, sulla discriminazione razziale e di genere, sul patriarcato. Sono tutti fenomeni mai neutralizzati a livello sociale, che si ripresentano con più o meno virulenza nella società. In questi anni prevale la narrazione suprematista, razzista, eterosessista, transfobica dei governi di destra. La retorica di Trump negli Usa, Orban in Ungheria, e in Italia con Meloni non ci facciamo mancare nulla. Gender è diventata la parola da combattere. La famiglia naturale, con la ripartizione tradizionale dei ruoli uomo-donna, è il valore da difendere. La risoluzione Sasso serve esattamente a questo: squalifica l’ideologia gender nelle scuole. Il governo comprende che la società sta evolvendo, e ha issato delle barricate intorno ai bambini e ai ragazzi, che sono il veicolo più straordinario di cambiamento. Per fortuna all’Università questi argini al pensiero non si possono ancora erigere». 

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