La Nuova Sardegna

Sa Die de sa Sardigna

Salice: «Un insegnamento per le nuove generazioni»

di Massimo Sechi
Salice: «Un insegnamento per le nuove generazioni»

Sulla Nuova Sardegna in edicola l’inserto dedicato alla “rivoluzione sarda” del 1794

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Sassari Il professor Giampaolo Salice insegna Storia Moderna nel dipartimento di lettere dell’Università di Cagliari, a lui abbiamo chiesto di illustrare i fatti che portarono alla “sarda rivoluzione”.

«I moti del 28 aprile 1794 si devono a molteplici fattori, tra cui la vittoriosa resistenza sarda al tentativo della Francia rivoluzionaria di conquistare la Sardegna durante l’inverno del 1793. A seguito di questo successo militare, i sardi acquisirono un notevole potere negoziale nei confronti della monarchia sabauda».

Quest’ultima, nei giorni successivi alla vittoria, mostrò una certa apertura nei confronti delle richieste sarde, limitata però a concessioni di tipo personale, senza intenzione di mettere in discussione l’assetto istituzionale del Regno e i rapporti di potere tra re e sudditi. Fu invece proprio questo rapporto tra Regno e sovrano a essere messo in discussione dal Parlamento sardo, autoconvocato e dominato dalla nobiltà feudale cagliaritana. La nobiltà, insieme alla Chiesa e a parte della borghesia integrata col sistema feudale, aveva subito gli effetti negativi delle politiche accentratrici e assolutistiche della monarchia sabauda, in particolare durante la stagione delle riforme dette “boginiane” e delle politiche di popolamento volte a introdurre nuovi coloni — spesso forestieri — in Sardegna e a creare una nuova nobiltà più legata agli interessi del sovrano. Il successo contro i francesi fu l’occasione per queste élite di rinegoziare l’equilibrio politico, che a loro avviso si era troppo sbilanciato a favore del re. Ne nacque una piattaforma rivendicativa articolata in cinque domande, inviate a Torino tramite un’ambasciata. Tuttavia, la risposta della monarchia fu negativa e il trattamento riservato agli ambasciatori suscitò forte indignazione a Cagliari. In questo clima di tensione prese forma una congiura prevista per il 4 maggio, in occasione del rientro a Cagliari del simulacro di Sant’Efisio.

Tuttavia, la congiura venne scoperta in anticipo dal viceré, che il 28 aprile fece arrestare due avvocati ritenuti tra i principali organizzatori. L’arresto fu la scintilla che fece esplodere la rivolta a Cagliari. In poche ore, la città si sollevò. La popolazione insorse con decisione, arrivando a imprigionare il viceré e i funzionari a lui legati nella corte vicereale. Dopo pochi giorni, essi furono imbarcati e espulsi da Cagliari, e successivamente dall’intero Regno di Sardegna».

Quale ruolo ebbero le diverse classi sociali sarde negli eventi del 1794? «La Sardegna del tempo era divisa in ordini. Nobiltà, alto clero, rappresentanti delle città erano quelli dominanti. Il ceto egemone era quello feudale che ebbe un ruolo direttivo e decisivo. Finanziò la resistenza antifrancese, dettò le cinque domande da inviare al sovrano, schiacciò il partito dei novatori, perseguiva la conservazione del feudalesimo. Nel seno della società sarda maturava però anche un nuovo ceto ‘mezzano’. Né nobile né plebeo, desiderava maggiore spazio politico, credeva nel profitto e desiderava libertà dal fisco feudale. Era rappresento nelle città da uomini come Giovanni Maria Angioy e in campagna dalle centinaia di prinzipales paesani che si schierarono al suo fianco nel suo viaggio verso Sassari. Questi “mondi” lottarono insieme contro i francesi e nel giorno del 28 aprile. Ma poi si divisero e si combatterono. A vincere furono i feudatari».

Come si inserisce questa commemorazione nel dibattito contemporaneo sull'autonomia speciale sarda? «Le due autonomie, quella della Sardegna del Settecento e quella novecentesca, sono realtà separate da profonde differenze storiche, giuridiche e politiche. Ma l’autonomia dell'antico regime è diventata – a partire dall’Ottocento – memoria collettiva, riferimento ideale, idealizzazione di un mondo mai esistito. Questa visione romantica ha trovato lo spazio e il suo senso nel presente. È diventato materiale buono per dare legittimazione storica a un’autonomia, quella regionale del Novecento, che aveva bisogno di costruirsi un passato e un’identità. Questo uso “politico” del passato, antico come l’umanità, continua ad essere praticato ancora oggi».

Quale può essere l’insegnamento di questa celebrazione per le giovani generazioni? «Le giovani generazioni intanto dovrebbero sapere perché il 28 aprile non vanno a scuola. La gran parte di loro lo ignora. Partirei da questo. La conoscenza de Sa die insegnerebbe loro, ma anche a tanti adulti, che l'idea della Sardegna quale terra isolata, senza tempo e incontaminata è un mito, un luogo comune, buono forse per il marketing, ma del tutto infondato sotto il profilo storiografico. Mai, nella sua lunghissima storia, la Sardegna è stata isolata. Il suo carattere principale era la connettività. I fatti del 28 aprile costituiscono l'ennesimo episodio in cui si manifesta la perfetta sincronizzazione della Sardegna coi valori e le contraddizioni del suo tempo. Perfettamente interconnessa con i centri di elaborazione culturale, spirituale e politica, divenne essa stessa spazio di azione e dibattito, diretto in piena autonomia, per il perseguimento di obiettivi interni e non in ossequio a disposizioni esterne o superiori. Non fu la prima volta, né l’ultima. Chi spiega la storia sarda nei termini di un'eterna sottomissione a un potere esterno non è attendibile. Fornisce però un alibi meraviglioso per giustificare e anche nascondere il fatto che spesso la conservazione è stata preferita al cambiamento. E che quella conservazione non è stata subita, ma agita, da protagonisti». 

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