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Marco Mancini: «Così nell’isola scoprimmo l’arsenale delle Br»

di Francesco Zizi
Marco Mancini: «Così nell’isola scoprimmo l’arsenale delle Br»

L’ex agente segreto si racconta: dal caso Abu Omar a Barbagia Rossa. Cossiga: «In carcere mi portò la Bibbia e Il giovane Holden»

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Sassari Ha mosso i suoi passi nel cuore dello Stato, dove si combatte senza divise e i successi non finiscono nei titoli dei giornali, e dove gli agenti sotto copertura operano in silenzio per garantire la sicurezza della collettività. Marco Mancini è stato responsabile del controspionaggio italiano e ha fatto parte della Sezione speciale anticrimine voluta da Carlo Alberto Dalla Chiesa, il reparto che per primo intuì come affrontare il terrorismo con strumenti d’intelligence, senza rinunciare allo stato di diritto. È stato al centro di alcune delle vicende più controverse della storia recente dei servizi: dal caso Abu Omar allo scandalo Telecom, due volte incarcerato, sempre prosciolto, fino al famoso incontro in autogrill con il senatore Matteo Renzi. Ha operato in silenzio nei fronti caldi del Medio Oriente, contribuito alla liberazione di ostaggi e nel settembre 2004 è stato protagonista della cattura a Beirut di Ahmad Salim Miqati, terrorista noto per essere responsabile delle stragi nei McDonald’s di Beirut, e in procinto di effettuare un attentato contro la locale ambasciata italiana.

Dottor Mancini, che tipo di minacce corre oggi la sicurezza italiana?

«La minaccia russa è già dentro l’Europa. Solo americani e inglesi hanno compreso la portata del pericolo. L’Italia ha fallito: mancavano fonti, mancavano analisi. Walter Biot, ex ufficiale militare, è stato arrestato mentre passava schede criptate a Mosca. Artem Uss, trafficante d’armi, è stato arrestato dalla polizia italiana a Malpensa. Evaso dai domiciliari con la complicità di una banda slava. In Libia, Haftar – vicino a Putin – sta piazzando sistemi missilistici nel deserto. E dietro i flussi migratori ci sono interferenze chiare. L’intelligence deve tornare centrale».

L’Italia quali strumenti ha per difendersi?

«Non basta più limitarsi alle intercettazioni. Il controspionaggio offensivo oggi significa infiltrazione, fonti umane, penetrazione dei gruppi nemici. Bisogna avere coraggio e visione».

Qual è stato il momento più critico della sua carriera?

«Uno dei tanti è stato l’arresto. Ho trascorso un anno in custodia cautelare di cui sei mesi in carcere. Sono stato completamente prosciolto sia per il caso Telecom che per il caso di Abu Omar, ma neanche un secondo in carcere può essere ripagato. Vorrei però ricordare che in questo momento Abu Omar è latitante in Egitto, dopo la condanna per terrorismo del 2015».

Si è sentito tradito dallo Stato a cui ha dedicato la sua vita?

«Assolutamente no, io allo Stato ho fatto giuramento. E poi lo Stato ha tante anime, mi sono sentito tradito da alcune persone. È accaduto anche nel caso di Beniamino Zuncheddu: c’è stata una revisione grazie a un magistrato capace di guardare oltre».

Passando alla Sardegna, c’è stato veramente il rischio che l’isola diventasse la Cuba del Mediterraneo a causa del piano di Feltrinelli con Mesina prima e dell’esperienza di Barbagia Rossa poi?

«C’è stato un tentativo. Le Brigate Rosse mandarono Antonio Savasta per prendere contatti con Barbagia Rossa e creare una colonna delle Br nell’isola, ma il piano non riuscì. Operavano in modo militare. Nelle campagne di Nuoro, su indicazione di Antonio Savasta, pentito dopo l’arresto, scoprimmo il più grande deposito di armi delle Brigate Rosse, la cui custodia era stata affidata a Barbagia Rossa. Ma quel progetto è fallito».

Mancini, lei ha origini sarde tra l’altro…

«Sì, da parte di madre. Era di Calangianus, si chiamava Corda. Mio nonno Mario, classe 1899, era dirigente postale e ha scritto anche qualche articolo per La Nuova Sardegna. Ogni anno torno nell’isola. La sardità è caratteriale, identitaria. Non si cancella, non si mitiga, come diceva il presidente Cossiga. E poi, naturalmente, tifo per il Cagliari. E poi mi lasci aggiungere “Fortza Paris”».

Cosa ricorda della stagione dei rapimenti in Sardegna?

«Personalmente non me ne sono occupato. La Sardegna però ha sempre avuto ottimi investigatori e magistrati. I banditi sardi sono stati arrestati da altri sardi. Le istituzioni locali hanno saputo reagire con professionalità, anche nei momenti più difficili».

Che rapporto c’è tra politica e intelligence?

«Sento ultimamente parlare di riarmo. Io dico che serve riarmare l’intelligence di notizie, affinché la politica riceva più informazioni dai servizi. È da lì che bisogna partire. Anche il Piano Mattei del Governo per l’Africa non potrà funzionare se non viene sostenuto da un sistema informativo all’altezza. In Medio Oriente siamo stati tra i più efficienti, ma oggi abbiamo bisogno di una struttura forte».

Lei ha lavorato con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che uomo era?

«Straordinario. È stato l’unico militare che aveva capito come contrastare il terrorismo in una democrazia. Costituì un reparto d’élite nei carabinieri, silenzioso, preparato, efficiente. Insieme ai magistrati, ai politici e anche ai giornalisti, contribuimmo a contrastare una delle minacce più gravi alla nostra Repubblica. Io ho avuto il privilegio di servire sotto il suo comando».

Poi ha conosciuto e ha avuto rapporti stretti con il presidente Francesco Cossiga…

«Un uomo eccezionale, coraggioso e di grande cultura. Quando ero nel carcere di San Vittore venne a trovarmi. Mi portò due libri, una Bibbia, in inglese e “Il giovane Holden”, io gli dissi “Presidente, l’ho già letto due volte”, lui mi rispose “allora lo leggi anche la terza”. Parlammo per ore in gallurese. Era un sardo autentico, uno che sapeva leggere la realtà, anche quella che stava per arrivare. Una persona ferrata sul terrorismo, sul controspionaggio, rara da trovare, un pioniere».

In Sardegna tornano ciclicamente gli attacchi ai portavalori, sembra che sia un fenomeno di nuovo in crescita…

«Non è chiaro se dietro ci siano bande locali, ma ciò che serve è infiltrarsi, scoprire le dinamiche, disarticolare i gruppi. Non bastano le intercettazioni. Ci vogliono operazioni sul campo, vere, complesse. Serve alzare il livello».

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