La Nuova Sardegna

Il giallo infinito

La criminologa Giannini: «Il mostro di Firenze uccideva per punire gli atti sessuali»

di Rita Lazzaro
La criminologa Giannini: «Il mostro di Firenze uccideva per punire gli atti sessuali»

La pista sarda riaperta dopo il test del Dna: Natalino Mele è figlio di Giovanni Vinci

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«Una volta eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per improbabile che sia, deve essere la verità». È con una delle celebri frasi di Sherlock Holmes, il detective per antonomasia creato dallo scrittore scozzese Sir Arthur Conan Doyle, che oggi, 21 agosto, a 57 anni dal primo delitto del “mostro di Firenze”, affrontiamo con la psicologa e criminologa Anna Maria Giannini una delle storie più controverse e raccapriccianti del crimine italiano.

Una storia che ha acceso la curiosità di scrittori e giornalisti, tra i quali Pino Rinaldi che ha approfondito ulteriormente la vicenda nel suo nuovo libro intitolato “Il mostro di Firenze. La verità nascosta” e la cui pubblicazione è prevista per il 22 settembre. Un caso che, ancora oggi, dal lontano 1968, tra quesiti senza risposta e nuove scoperte, continua a tenere tutti col fiato sospeso.

La novità più recente è che Natalino – il piccolo che nell’estate del 1968, all’età di 6 anni e mezzo, scampò ai colpi dell’assassino che uccise Barbara Locci, sua madre, e l’amante Antonio Lo Bianco nel primo delitto attribuito al “mostro di Firenze” – non è figlio di Stefano Mele. Quest’ultimo, manovale e marito della Locci, venne condannato per il duplice omicidio. Il genitore biologico di Natalino (lo dice il test genetico) è infatti Giovanni Vinci, fratello maggiore di Francesco e Salvatore, tutti e tre amanti della Locci.

Dottoressa Giannini, in che modo quel fatidico giorno ha segnato la mente del piccolo Natalino? E come, a suo avviso, quest’ultima scoperta concernente l’identità del padre biologico ha inciso sulla personalità di un bambino, oggi uomo?

«Un episodio simile non può che avere un impatto straordinariamente forte su un bambino di poco più di sei anni. Il piccolo Natalino, trovandosi nell’auto con la madre e con Antonio Lo Bianco, assiste all’uccisione della madre, è testimone di un duplice efferato omicidio. Scene come questa hanno altissimo potenziale traumatico e sono inelaborabili per un bambino. Il dolore per la morte della madre si accompagna alla visione della sua violenta uccisione: un bambino di circa sei anni, oltre a provare un dolore fortissimo, sperimenta un vissuto di impotenza e senso di colpa per non essere riuscito a salvare la madre».

A proposito di Barbara Locci, da quanto riportato nel libro di Rinaldi, i conoscenti la descrivevano come «avida d’amore, di uomini e di soldi». «Troppo vivace» per i parenti del marito. Se lei dovesse fare un’analisi su questo personaggio, quale sarebbe la sua conclusione?

«La descrizione sembra quasi alludere a responsabilità della stessa Barbara Locci nell’avere cercato con il suo comportamento l’esito tragico che l’ha condotta alla morte. Sul piano psicologico appare evidente quanto il comportamento di Barbara fosse distante dalle aspettative di chi la descrive. È metodologicamente impossibile compiere un’analisi o tracciare un profilo senza incontrare la persona e poter usare gli strumenti che ci mettono a disposizione le scienze psicologiche, criminologiche, psichiatriche. In riferimento alla documentazione di cui ho potuto disporre, potrei ipotizzare che Barbara fosse una donna con una vita difficile, deprivata e quindi desiderosa di “recuperare” di “essere risarcita” sul piano economico e affettivo».

A proposito di Stefano Mele e dei Vinci, ossia marito e amanti della Locci, qual è la sua posizione a riguardo, soprattutto sulla base dei rapporti non conflittuali che c’erano tra il primo e i secondi?

«Sembrano dinamiche dagli intrecci molto complessi, potremmo ipotizzare che non vi fossero conflitti aperti e che l’emozione della gelosia non fosse presente con conseguenze legate ad esigenze di esclusività e possesso. In realtà non sappiamo cosa provassero a livello profondo e come gestissero le emozioni».

Giovani coppie e coppie di amanti, sono queste le vittime degli otto duplici omicidi commessi dal mostro di Firenze. Dinamiche caratterizzate da un’efferatezza intrisa di misoginia nell’infierire sul corpo delle donne: dal tralcio di vite infilato nella vagina all’escissione, per poi aggiungere il taglio del seno sinistro. Secondo lei, a cosa è dovuto questo modus operandi?

«Chi ha ucciso ha voluto colpire in modo atroce e sadico le coppie in intimità, infierendo poi sui corpi delle donne. Deve essere una persona alla quale l’intimità profonda è stata negata, che ha vissuto esperienze di rifiuto e si è sentito inadeguato. L’assassino, dunque, intercetta la coppia in intimità, uccide entrambi e poi si accanisce con un modus operandi attuato con precisione chirurgica sul corpo senza vita della donna, proprio su genitali e sul seno. La simbologia è chiara: vuole punire la donna per la sua sessualità, per essere stata in intimità, per avere provato piacere».

Vista la crudeltà sfogata sulle donne, perché non colpire solo il genere femminile, ma agire costantemente sulle coppie?

«Perché l’oggetto dell’odio non è la donna in astratto, ma la donna in intimità sessuale. Quello che vuole colpire è l’atto, non solo la donna: la donna è colpita in quanto parte della coppia che si scambia effusioni. La lettura, sul piano simbolico, ci fa pensare ad un odio estremo rivolto a chi può provare un piacere negato all’assassino che diviene una specie di giustiziere».

Sulla base della sua esperienza e dei suoi studi il mostro di Firenze è un serial killer sui generis o si può accostare ad altri?

«Nella storia della criminologia troviamo diverse situazioni rispetto alle quali poter cogliere somiglianze, delitti plurimi che presentano costanti legate al tema della sessualità e dell’odio per le donne, tuttavia io credo che ogni situazione sia una storia a sé. La ricerca del movente nella storia del cosiddetto mostro di Firenze richiama il mondo della psicologia del profondo, della lettura dei simboli e ci riporta alla incredibile complessità della mente criminale. Il tema dei temi in criminologia».  

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