Antonio Marras: «Incantato da Sharon Stone, New York come la mia Alghero»
Lo stilista lancia la nuova collezione con la grande diva. Dal suo studio parla di moda, degli anni a Parigi, dello sbarco negli Usa
Brillante, ironico, «ossimoroso». Antonio Marras parla di concetti seri giocandoci su. Parla, facendo balzi temporali in avanti e indietro da film di Tarantino, mentre tiene in mano la matita e abbozza qualcosa sul foglio. Tra i più grandi stilisti italiani contemporanei, è nel suo studio di Alghero, è ora di pranzo, ma ha iniziato a lavorare dalle 7. Ha appena lanciato i primi capi della nuova collezione autunno-inverno 2025. La sua musa è Sharon Stone. Completo grigio, capelli platino spazzolati all’indietro, Capo Caccia sullo sfondo. Creativo a tutto tondo, Marras a ottobre torna in scena con un’opera teatrale, sta concludendo un libro d’artista e a gennaio esporrà insieme alle opere di Maria Lai. Lo ascolti e capisci solo dopo un po’ se fa sul serio o si sta divertendo a prendere in giro il mondo della moda.
Cosa ha visto in Sharon Stone?
«Sono povero ma delicato, e ho il lusso di scegliere chi vorrei, le persone che mi piacciono e hanno una storia, uno spessore, anche se è una parola abusata. Ho capito la grandezza dell’attrice quando ha fatto “Casinò”, rimasi affascinato dal suo essere. È una donna che sta vivendo una seconda giovinezza, come direbbe Aznavour il tempo che le altre sfigura ha cambiato in lei solo la pettinatura».
Come siete entrati in contatto?
«L’anno scorso era al festival del cinema di Taormina, aveva a disposizione un guardaroba con capi di tutte le firme, era stato chiesto anche a me, ho detto “Glieli mando, ma figurati...”. Nella conferenza stampa della mattina indossa un mio abito. La sera, al ritiro del premio, ne indossa un altro mio».
E da lì era fatta, insomma.
«Credo molto nei segni, esistono cose che devono succedere. Il primo impatto poi fa capire com’è una persona. Era arrivata a una sfilata circondata da venti bodyguard e mi ha colpito e sconvolto: radiosa, brillava di luce propria. Poi abbiamo avuto uno scambio, aveva modi semplici, mi ha fatto i complimenti per alcuni abiti, e li ho avvertiti sinceri».
Immagino ormai sappia riconoscere i complimenti sentiti da quelli di circostanza.
«Gli italiani quando non sanno cosa dire usano l’aggettivo “carino” o “carina”. Ed è orribile. Poi con quella “c” un po’ trascinata. Io lì non ci vedo più. Anche perché, voglio dire, quando hai 25 o 30 anni che inizi ed è tutto nuovo è un conto, a una certa età ho deciso che incontro solo chi voglio, ascolto solo chi voglio. D’altronde non vado alle feste, non me ne frega niente».
Ma anche quello fa parte della moda, no?
«Ma io sono fuori dalle giostre della moda che pretende di essere così, al 99 per cento degli eventi non vado, con grande disperazione del mio ufficio stampa».
Perché?
«Sono sempre stato così, un po’ cinghiale. Credo di essere stato a cinque cene di Vogue in 30 anni di lavoro».
Mi parla della sua ultima apertura, la boutique a New York?
«È una città che ho sempre paragonato ad Alghero».
Addirittura?
«Ci sono delle affinità: il vento freddo che muove le acque, qui del mare e lì dell’Hudson. E poi la luce, il cielo che viene offuscato dalle nuvole, i raggi che filtrano dentro con i colori, e i riflessi. A New York tutto diventa magico, è la città dove avrei voluto abitare. Il negozio è nel mio quartiere preferito, Soho, ed è un grande loft dove ho portato tappeti sardi, le ceramiche, ho ricreato quella che poteva essere casa mia».
La Sardegna l’accompagna sempre?
«Per me è un posto che ha una valenza incredibile. Stava per saltare il mio contratto con Kenzo, anni fa, perché ho detto che non mi sarei trasferito a Parigi. Ero risoluto, mi ha sempre mosso l’incoscienza. Sono sempre stato rispettoso ma senza timore reverenziale. Arrivavo dal confine dell’impero, dall’isola, e sono stato catapultato nel mondo dove lo stilista lo chiamano “créateur”, cioè creatore... arrivi a un certo punto che il creatore è anche un passo sotto. Certo, all’inizio non mi consideravano molto...».
Poi ha iniziato a diventare un nome richiesto.
«La fortuna è avere Patrizia (la moglie, ndr), donna diplomatica e intelligente, grazie a lei sono quello che sono. Per poter fare quello che faccio, mi domando ancora cosa ci faccio qui».
Dai, mi dica cosa ha provato quando ha iniziato a essere così famoso.
«Ma io sono uno che fa le lavatrici, stende – per valore cromatico –, stira. Se non razionalizzi, questo lavoro ti porta al delirio di onnipotenza. A Parigi dopo la prima sfilata sei dio. Ecco, non ne ho mai approfittato. Sono come Bocca di Rosa, lo faccio per passione».
Mi parla delle tendenze di oggi?
«Finora è andato tutto bene, poi mi vieni a parlare di tendenze...».
No, rimediamo allora: mi parli della moda secondo Antonio Marras.
«Lavoro rigoroso che richiede devozione e sacrificio, e persone fondamentali attorno che applichino le tue idee e le facciano arrivare. La moda è uno specchio della società e un riflesso di quel che siamo».
Un’ultima cosa, mi parla del suo legame con Geppi Cucciari?
«Lei dice sempre che alcuni uomini l’hanno spogliata e io sono l’unico che la veste. È una donna stra intelligente, molto più che amica. Lei è famiglia».