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Filippo Martinez: «Viviamo in una terra baciata da Dio, l’insularità fa bene anche all’arte»

di Caterina Cossu
Filippo Martinez: «Viviamo in una terra baciata da Dio, l’insularità fa bene anche all’arte»

Il regista e tragediografo racconta il suo legame con l’isola: «Siamo stati bistrattati dagli storiografi»

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Fosse per lui, “vorrei vivere fino a 130 o 140 anni, per vedere cosa potrà dare la Sardegna che ancora non conosciamo. Questa terra va frequentata con intelligenza e tirerà fuori cose che voi umani non potete nemmeno immaginare”. Filippo Martinez di anni oggi ne ha 74, e nella sua bio è tante cose, oltre a quelle per le quali è noto al grande pubblico, come la sua più recente creatura, l’Università di Aristan: Accademico perduto del Giudicato d’Arborea dunque, ma anche tragediografo ossessionato dalla sintesi. Nel giorno del 50esimo compleanno ha proclamato la sua morte “indidascalica”, si considera dunque “postumo” e nella sua epigrafe scrive: “Trasloco. Vado in quel che faccio e faccio quel che sogno. Sono altrove. Altrove è l’unico posto possibile”. Parlare con lui seduti al tavolino di un bar a Oristano però vuol dire scoprire che quella dimensione dove risiede ora è la stessa del fanciullo che è stato un tempo.

Rompiamo il ghiaccio parlando di massimi sistemi: chi è per lei l’Artista?

«Quando i miei genitori non ce la facevano più ad avermi tra i piedi, mi affidavano a fogli bianchi e pastelli, matite, colori. Così, un disegno diventava una storia declamata in versi di animali e suoni della giungla; la narrazione diventava cinema e teatro, perché studiavo dinamiche, i personaggi interpretavano parti. Quando venivo richiamato per cena, riemergevo da quel mondo lurido di colori, ancora immerso in quel mondo circolare, dove i piani artistici si mescolavano. Così è l’artista: un fanciullo non corrotto, libero e dilettante estremo».

Scusi, ma che c’entra il dilettantismo con l’arte?

«Noi siamo abituati all’accezione inquinata dalla diminutio di significato. L’etimologia però insegna che il dilettante è colui che coltiva un qualcosa per il proprio piacere. L’arte è immersione totale, voglia famelica ed erotica. E ne consegue la circolarità nell’utilizzo dei supporti, come quel bambino che passa dalla carta al cinema grazie ai pastelli. In questo senso, tutta la mia vita è costellata di progetti che si sono parlati l’uno con l’altro, dove la circolarità dell'espressione artistica».

La sua esperienza a Canale 5 negli anni Novanta e la collaborazione con Sgarbi restano nella memoria di molti sardi: è una cosa che rifarebbe?

«Io tv oggi non ne guardo, a parte le partite di calcio o qualcosa di mirato. L’esperienza de La casa dell’anima, trasmissione per la quale ricevemmo ben due volte il Premio Flaiano come miglior trasmissione televisiva dell’anno, o il fortunato format di Sgarbi Quotidiani, non sarebbe oggi ripetibile. Vittorio messo lì contro il potere dei giornali, era un dio con la sua spregiudicatezza. Costruivamo ogni puntata di giorno in giorno, disegnavo la copertina che andava in onda sempre con la Ninna nanna del vecchio facchino dei Salis&Salis. Portavamo l’arte a milioni di Italiani, all’ora di pranzo».

Mi racconti un aneddoto che non ha mai raccontato di lei e Sgarbi.

«Lui è proprio jazz, schiocco di dita e cambio di rotta. Ricordo ancora una puntata che voleva dedicare a Mani pulite, invece io sentivo la necessità di ricordare il mimo Jean-Louis Barrault, morto la notte prima e celebre interprete del bianco mimo di Amori Perduti. Non trovavamo un accordo e insomma, va a finire che la puntata inizia e lui lancia “La rivolta delle toghe rosse” come argomento del giorno; io, a mia volta lancio con la sigla un mio dipinto di un mimo bianco, etereo, chiaro riferimento. La telecamera stacca nuovamente su Vittorio e lui, greve, annuncia “Oggi è morto Jean-Louis Barrault”, per poi andare avanti in maniera estemporanea con una lezione goduriosa. Questo era, ed è ancora, Vittorio».

In una società con il livello di attenzione pari al reel di Instagram, come si fa l’arte?

«Lo diceva anche l’ex allenatore del Cagliari Claudio Ranieri parlando del livello di attenzione dei calciatori nello spogliatoio: serve il metalinguaggio. Nell’epoca moderna, questa dispersione viene certamente dall’euforia del mezzo di nuova concezione, ma l’umanità più intelligente sta già mettendolo da parte lo smartphone e agendo modi per non farsi divorare. La bussola è sempre la capacità di scelta: cercare contenuti di valore porta a distogliersi dall’overdose di offerta».

Qual è il rapporto tra la Sardegna e la sua espressione artistica?

«La Sardegna è per gli artisti uno spazio baciato da Dio, pensiamo al tasso di stimoli enormi confrontato con la minima densità abitativa; al di là dei nomi conclamati ci sono individualità accattivanti, soprattutto tra le nuove generazioni, belle personalità che però hanno una fama minima, per ora. L'insularità è ambivalente, influisce negativamente e positivamente sugli artisti, ma sono molto ottimista che riusciremo a tirare fuori sempre il bello. È la nostra storia, anche se siamo stati bistrattati dagli storiografi: sono stati tracciati percorsi per fortuna, soprattutto in archeologia, che ci porteranno in breve tempo a scoprirci più antichi e stratificati di quello che ci hanno finora credere. I Giganti di Mont’e Prama sono solo la punta di un iceberg».

Mi spieghi meglio.

«Ci sono temi come i nostri luoghi magici che vanno trattati con approccio filologico: penso alle Domus de Janas (dichiarate patrimonio Unesco proprio a luglio 2025, ndr), non sono affatto le case delle streghe, ma porte; sono passaggi nel senso del sacro. Penso a Su Componidori della Sartiglia di Oristano, il Cavaliere infinito che è simbolo che trascende l’anagrafe, caso di conclamata androginia e semi divinità, dispensatore di benedizioni. Questa concezione della nostra storia è la matrice della sacralità stessa della Sardegna, che può portarci al centro della cultura mondiale».

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