Da Milano a Cabras, dal tatuaggio all’home restaurant: la nuova vita di Pietro Sedda
Il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti
Per strada gli capita spesso di imbarazzarsi: che sia a New York, in Oriente o tra le stradine di San Giovanni di Sinis, le persone lo riconoscono e gli chiedono un autografo: «Non penso mai che quello che ho fatto nella vita sia di ispirazione per qualcun altro, invece lo è. Oggi ho mollato un po’, ma le persone continuano a chiamarmi “maestro”, vengono a tatuarsi da me con un atteggiamento di reverenza. Non mi ci abituo, non mi piace autocelebrarmi».
Definire Pietro Sedda designer, artista e tatuatore sembra riduttivo: la sua fama è arrivata ovunque nel mondo grazie a progetti con partner come Bmw, Fritz Hansen, il collega Diego Brandi. Oggi ha 56 anni e si era ripromesso che entro i 60 sarebbe tornato lì dove tutto è iniziato, con nuovi stimoli e nuovi progetti.
Come si è evoluta la sensazione di tatuare?
«Mi piace essere metodico: leggo le mail appena arrivo, preparo da me la mia postazione. Lo studio ora risulta un ambiente intimo, confortevole, ed è un grande cambiamento dal precedente, super affollato. Invito sempre a stare tranquilli e godersi quel momento. Cerco di parlare il meno possibile, perché se si parla di meno si capisce di più l’esigenza del cliente, si crea questo filo rosso ed è molto soddisfacente. Ho sempre potuto scremare le richieste, faccio capire quando non voglio fare qualcosa e che è un’arte che voglio esercitare con entusiasmo e non per fare marchette. Mi rendo conto di trasmettere autorità, questo sì, ma è il mestiere che lo impone: non puoi tatuare ed essere titubante. E poi sono convinto che i progetti belli nascano da soli, non c’è bisogno di forzare nulla nella vita».
Come ha iniziato?
«Il mio primo laboratorio è stata una botteguccia a Oristano: si chiamava Officina Alzheimer e realizzavo oggetti di design con materiale di recupero. Mi ricordo ancora Lo Scomodino, fatto di chiodi, era un luogo pieno di oggetti assurdi e clienti attirati dalla loro eccentricità. Uno di questi fu proprio Renato Soru, a cui devo il mio primo lavoro su commissione di un certo rilievo: negli anni in cui nasceva Tiscali, infatti, mi chiese di realizzare cinque grafiche per le tessere ricaricabili, usavamo ancora le lire».
Come si è guadagnato l’appellativo di “maestro”?
«Nasco come artista visivo, pittore. Ai tempi in cui ho definito la mia proposta, era un’estetica che nel mondo del tatuaggio non esisteva (si riferisce allo stile contaminato dalla cultura olandese del Seicento, le incisioni botaniche dell’Ottocento, dai viaggi soprattutto in Oriente e Giappone, definito surreale, neo-tradizionale e pittorico, tra fumetto e Bad Painting, ndc). Ora magari è passato talmente tanto tempo che chi tatua oggi non sa che sta copiando me».
Perché non ha più voglia di dedicarsi solo al tatuaggio.
«Sono stanco: Milano è alienante, e io ho dato tanto, a questo mestiere specialmente. Mi sono trasferito a Cabras da una settimana e già ho i miei ritmi: qui vado al mare a mangiare una focaccia, cerco asparagi, faccio altre scelte. Il mondo del tatuaggio è complesso ed è cambiato negli ultimi anni, soprattutto dopo il Covid. Dieci anni fa avevo l’agenda piena con una programmazione a 6 mesi, oggi se riesco a programmarne uno intero è l’eccezione, così è anche per i colleghi in tutto il mondo. Non c’è un'età giusta per cambiare, c’è il momento per farlo».
I suoi ravioli sembrano gioielli...
«In vista ho cambiamenti categorici, come riprendere la pittura. Ora però sono concentrato sull’home restaurant, la mia nuova creazione è Musubi - Al Giardino di sera. Cucino io, una fusion tra cucina sarda ed etnica: sono di Oristano, ma i miei genitori sono originari di Ovodda e Desulo, la Barbagia mi abita. Di contro, ho viaggiato per tutto il mondo, e la cucina unisce le mie esperienze. Sto iniziando in giardino, arrivo a un massimo di 12 coperti per volta, e ho sempre voluto farlo: dopo le medie i miei mi impedirono di iscrivermi all’alberghiero, imponendomi l’Istituto Tecnico».
Le hanno già detto che è un progetto ambizioso per la piccola Cabras?
«Certo, mi hanno proposto di farlo a Milano, ma ho risposto dicendo che non mi fermo a questo: voglio realizzare a breve il sogno di aprire un ristorante. Ho studiato Alta cucina a Milano, l’anno prossimo parto due mesi per approfondire in Giappone. In cucina ho riportato la mia poetica e l’esordio quest’estate è stato più che incoraggiante. Ho portato a Cabras una ventata di sapori nuovi e inaspettati».
Andare “fuori” è imprescindibile per chi vive l’insularità?
«No, lo è a prescindere dal luogo dove si vive: favorisce il percorso personale: solo con il confronto si può avere una reale crescita. Nonostante oggi viviamo immersi nella cyber technology, viaggiare ed esporsi è imprescindibile per la definizione della propria tempra, nel bene e nel male. L’insularità non è un escamotage per dire che si è potuto fare qualcosa. Io provengo da una famiglia benestante e sono stato supportato. Ma non è il luogo a determinare le possibilità».
Si dice che i sardi tra loro si confrontino sempre nel male però.
«Non parlerei di invidia ma di una permalosità dilagante, soprattutto nel Campidano. Però arriva un punto in cui, come ho fatto io, te ne puoi anche fregare e andare avanti. Ho raggiunto una maturità e ho fatto un percorso tale, che oggi mi permette di poter fare quello che voglio. A chi dubita rispondo con una domanda: “Volete rimanere come lo stagno, immobili”?»

