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Per precari e redditi bassi pensioni più lontane: si dovrà lavorare più a lungo – Le novità dal 2028

Per precari e redditi bassi pensioni più lontane: si dovrà lavorare più a lungo – Le novità dal 2028

Le simulazioni del sindacato mostrano che l’aumento dei requisiti legato all’aspettativa di vita penalizzerà soprattutto i lavoratori poveri: fino a mesi aggiuntivi di attività per compensare contributi insufficienti, mentre il minimale cresce più dei salari

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Sassari L’aumento dei requisiti pensionistici previsto dall’articolo 43 della legge di Bilancio avrà un impatto significativo soprattutto sui lavoratori con redditi modesti. È quanto emerge dall’analisi dell’Osservatorio Previdenza della Cgil, che mette in luce come lo slittamento dell’uscita – tre mesi in più dal 2028 per effetto dell’adeguamento alla speranza di vita – si tradurrà, per molti, in settimane o mesi aggiuntivi di lavoro necessario a compensare la mancanza di contributi pieni.

Secondo il sindacato, il fenomeno riguarda una fascia ampia di lavoratori: oltre 5,1 milioni di dipendenti privati, pari al 29% del totale, non raggiungono oggi le 52 settimane contributive pur lavorando tutto l’anno. Contratti brevi, part-time involontari e retribuzioni troppo basse non consentono infatti di superare il minimale contributivo, condizione necessaria per far riconoscere tutte le settimane ai fini pensionistici. La situazione colpisce soprattutto donne e giovani.

I calcoli: con redditi bassi l’aumento dei requisiti pesa di più Le simulazioni elaborate dalla Cgil mostrano come l’incremento dei requisiti non ricadrà in modo uniforme. Per un reddito annuo di 5.000 euro, le settimane che risultano utili ai fini contributivi sono poco più di 21: per “recuperare” i tre mesi aggiuntivi richiesti dal 2028 serviranno quasi due mesi di lavoro in più. L’impatto cresce nel tempo: nel 2040, per compensare gli ulteriori 13 mesi previsti, occorreranno più di sette mesi di lavoro aggiuntivi; nel 2050, con +23 mesi stimati, l’estensione sale a un anno e un mese di attività in più.

Anche redditi leggermente superiori non sono esenti da conseguenze rilevanti. Con 8.000 euro annui, i tre mesi previsti nel 2028 si traducono in circa cinque settimane di lavoro ulteriore; nel 2040 serviranno quasi cinque mesi, mentre nel 2050 gli otto mesi necessari si sommeranno agli aumenti già maturati. «Ogni 20 mesi lavorati, solo 12 verranno riconosciuti ai fini della pensione», sintetizza Ezio Cigna, responsabile previdenziale della Cgil.

Il minimale contributivo corre più dei salari Il sindacato richiama l’attenzione anche su un altro elemento: il minimale contributivo è cresciuto del 16,5% dal 2022, spinto dall’indicizzazione delle pensioni minime, mentre le retribuzioni nei settori più deboli sono rimaste pressoché ferme. Il risultato è una perdita automatica di settimane contributive anche per chi lavora continuativamente. «Tra il 2023 e il 2026 un lavoratore può perdere fino a 22 settimane, oltre cinque mesi e mezzo di pensione futura, pur avendo lavorato ogni giorno», afferma Cigna.

La critica della Cgil: “Promesso lo stop agli automatismi, ma i requisiti aumentano”

La Cgil punta il dito contro il governo, accusandolo di aver disatteso gli impegni sul superamento della legge Monti-Fornero e sul blocco dell’adeguamento automatico all’aspettativa di vita. «L’articolo 43 conferma l’aumento dei requisiti: si andrà in pensione più tardi, e il costo ricadrà proprio su chi ha meno tutele e redditi più bassi», osserva Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil. «Chi ha svolto lavori poveri, precari e usuranti dovrebbe poter accedere prima alla pensione, non dopo».

Il 12 dicembre lo sciopero nazionale Il sindacato annuncia una mobilitazione per venerdì 12 dicembre, quando in tutta Italia si terrà uno sciopero dedicato non solo al tema previdenziale ma anche a sanità pubblica, politiche industriali, occupazione e salari. «Chiediamo al governo di cambiare rotta: non è accettabile essere poveri mentre si lavora e rischiare di esserlo ancora di più da pensionati», conclude Ghiglione.

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