La Nuova Sardegna

Sassari

«Ora lo Stato risarcisca i detenuti pestati»

Daniela Scano

I legali preparano i ricorsi e chiedono i danni per quella notte d'inferno del 2000

10 giugno 2007
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SASSARI. Lezione memorabile e cruenta ai «riottosi» che, protestando dietro le sbarre, avevano messo in imbarazzo i vertici dell'amministrazione penitenziaria. Soprattutto ai detenuti che nella primavera del 2000 venivano considerati, a torto o a ragione, «i boss di Sassari». Personaggi di seconda schiera, in realtà, che però avevano riacceso i riflettori sulle croniche carenze strutturali di San Sebastiano.

Carcere antico e sovraffollato dove la sofferenza dei reclusi si specchiava nel disagio del personale. In questo clima, l'ispezione di una commissione parlamentare non poteva non far saltare i nervi a chi avrebbe voluto nascondere le «miserevoli condizioni dell'istituto». Quello del 3 aprile 2000 fu un pestaggio collettivo «voluto e programmato dal provveditore regionale Giuseppe Della Vecchia in collaborazione con il comandante Ettore Tomassi e, quanto meno, con l'approvazione della direttrice Maria Cristina Di Marzio».

Per il giudice Giovanni Antonio Tabasso, estensore della sentenza di secondo grado sui fatti di San Sebastiano, questa è «la verità ostinatamente negata ma che una serie di gravi elementi conclama». Botte, umiliazioni e torture sono state derubricate in «abuso di autorità contro detenuti». A pagina 182 della sentenza d'appello, verdetto che la Cassazione ha fatto diventare la prima definitiva verità processuale sul gravissimo episodio, il giudice Tabasso spiega le ragioni di dieci condanne e di cinquanta assoluzioni. Come si sa pagano - con pene (sospese) dai quattro ai venti mesi di reclusione - l'ex provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria Della Vecchia, la direttrice Di Marzio, l'ispettore Ettore Tomassi e altri sei tra ispettori e agenti penitenziari. Saranno loro a risarcire i danni, per ora quantificati in provvisionali e spese legali per complessivi centomila euro, alle parti civili che però già si preparano a presentare il conto allo Stato in un giudizio civile.

La condanna più severa è stata inflitta a Tomassi, beneventano come Della Vecchia e da lui scelto sette anni fa per sostituire un comandante delle guardie giudicato inadeguato. Attraverso il pestaggio del 3 aprile, nel 2000 Tomassi avrebbe dovuto imprimere una memorabile svolta disciplinare nella vita della casa circondariale sassarese. L'ispettore sarà ricordato come l'uomo con lo spolverino bianco che, in piedi sul tavolo della sala colloqui, incitava al pestaggio gridando «sono il vostro dio».

«La sua presenza doveva costituire un vigoroso segnale di cambiamento di rotta per il personale della polizia penitenziaria, non meno che per i detenuti - scrive il giudice Tabasso -. E il trattamento usato il 3 aprile doveva rivolgersi soprattutto a quelli fra i reclusi che avevano cercato di usare il loro ascendente sui compagni di pena. Questo fu essenzialmente il compito affidato a Tomassi, come ben dimostra la sua frase “ecco i boss di Sassari”, lanciata sprezzantemente a detenuti nudi, ammassati e fatti oggetto di sevizie nella sala colloqui». Pestaggio andato avanti per ore prima del trasferimento negli istituti di Macomer e Oristano dove nessuno refertò le lesioni.

In realtà, precisa il giudice, a subire le violenze quel giorno non furono i boss, ma «pesci piccoli, incapaci delle reazioni e della dura determinazione che i personaggi di spicco sanno dimostrare». Criminali di piccolo cabotaggio, che gli agenti penitenziari disprezzavano «e potevano umiliare senza paventarne le reazioni». Queste persone, «non certo i boss autentici del braccio di massima sicurezza, che non subirono uguale trattamento», furono le vittime di una brutalità inaudita usata da uomini dello Stato come una clava per spezzare le proteste, ma anche per segnare il cambio di passo in un carcere «amministrato in modo non abbastanza energico, con evidenti gravi carenze sul piano disciplinare e dove le guardie erano tutt'altro che motivate nello svolgimento dei loro compiti».

Questo doveva essere e questo fu, secondo sentenza, il pestaggio di uomini inermi da parte di un'orda di agenti penitenziari arrivati dagli istituti penitenziari di tutta l'isola per partecipare a una operazione «programmata nei termini in cui si svolse - si legge nelle motivazioni -, come dimostrano le risposte evasive della Di Marzio a chi le chiedeva notizie circa i fatti di quel giorno, alle aperte minacce che Della Vecchia rivolse a chi avrebbe potuto infrangere il muro di silenzio che doveva circondare l'operazione. Ma anche all'ostruzionismo, alle blandizie e alle minacce usati da Tomassi nei confronti di chi poteva rivelare l'accaduto». Operazione di depistaggio che cercò di sviare l'attenzione del giudice di sorveglianza, di due educatrici preoccupate per le condizioni dei reclusi, di un medico che si sentì invitare a «tenersi fuori» quando segnalò «che un grande numero di reclusi erano da refertare per percosse». E se è vero che nessuno degli agenti, secondo i giudici, può dire di non avere visto o di non avere capito cosa accadeva a San Sebastiano, è altrettanto vero che la sentenza non può essere basata sul «concorso morale». Il giudice Tabasso - con una tesi condivisa dalla Cassazione - è consapevole del fatto che le cinquanta assoluzioni potrebbero «mandare esenti da pena molti responsabili» delle violenze, ma avverte che «non è ammissibile, a nessun patto, il rischio di far pagare a diversi imputati azioni da essi non realizzate e non condivise».

È un fatto, comunque, che secondo i giudici tutti gli agenti arrivati a Sassari per una perquisizione straordinaria «sapevano quale fosse la lezione da impartire» ai detenuti. Tuttavia, scrive Tabasso, «a chi non fosse stato d'accordo sull'adesione al programma non restava altra strada che cercare di adeguare il proprio comportamento alla legalità, pur nella situazione anormale vissuta, tentando di tenersi in disparte per quanto possibile e di non prestare la propria collaborazione a quanto di illegale avveniva». Nella impossibilità di stabilire il concorso e di ricostruire ogni singola azione di ciascun attore sulla scena, i giudici hanno scelto di condannare gli artefici del pestaggio, i violenti che vennero riconosciuti dalle vittime e «coloro i quali, per la posizione di comando, avevano la concreta possibilità di imporre la loro volontà ai colleghi che commettevano in loro presenza azioni illegali. E pur potendo intervenire, non intervennero».

Nelle pieghe di una verità processuale senza scuse per nessuno, anche degli assolti, c'è spazio per le attenuanti. È al momento di concedere a tutti i condannati le «generiche» prevalenti sulle aggravanti che il giudice Tabasso le ravvisa, non solo nel passato professionale inappuntabile, ma anche «negli stessi motivi a delinquere, costituiti dal desiderio, seppure interpretato in maniera distorta, di riportare ordine in un carcere la cui gestione diveniva sempre più difficoltosa».

«Per alcuni di essi - spiega il giudice - non può inoltre tacersi della esasperazione indotta dalle difficoltà particolari di un lavoro svolto in una struttura inadeguata come quella che ospita la casa circondariale di Sassari». Quasi un monito, quest'ultimo, perché le istituzioni imparino da un passato doloroso. Questa sì, può essere la lezione dei fatti di San Sebastiano.
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