La Nuova Sardegna

Sassari

«Sì, la scuola non fa abbastanza»

«Sì, la scuola non fa abbastanza»

Parla Letizia Di Nora, presidentessa della sezione sassarese dell’Aid

02 aprile 2014
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SASSARI. Letizia Di Nora non è una donna che ama le polemiche. Per lei ciò che conta è quello che si fa. Sono i risultati. Per questo, da presidente della sezione sassarese dell'Associazione italiana dislessia, usa lo strumento della critica con misura e con eleganza, ma comunque senza fare sconti a nessuno. Anche nei confronti della scuola che, davanti al problema della dislessia, non fa abbastanza. «Gli ostacoli più difficili che dobbiamo superare quotidianamente – dice – sono soprattutto l'indifferenza e l'insensibilità. Troppo nell'universo della scuola è ancora affidato all'individualità, all'intelligenza del singolo insegnante che capisce il problema e lo affronta. Ci sono infatti docenti che, pur senza una preparazione specifica, riescono a mettersi in sintonia con i ragazzi dislessici, stabiliscono un'interazione che porta poi a percorsi educativi efficaci. Il peggior nemico per noi è l'indifferenza o la sottovalutazione del problema. L'insegnante che non percepisce le difficoltà dello studente affetto da Dsa non solo rischia di perdere un patrimonio umano, ma genera reazioni complesse sia nei ragazzi e sia nelle loro famiglie».

«Utilizzando i normali protocolli formativi – continua la dottoressa Di Nora – si generano infatti inconsapevolmente solitudini, disturbi psicologici o addirittura reazioni cariche di rabbia. Questo perché i ragazzi sono spesso inconsapevoli della propria condizione di difficoltà e si sentono inferiori, rifiutati. Ne derivano dei pericoli per l’equilibrio psicologico degli studenti che possono manifestare una perdita di fiducia in loro stessi e il timore di non essere all’altezza degli altri».

Sorprende anche la dimensione del fenomeno dislessia. Secondo gli studi più recenti, ne è colpito quasi il 5 per cento della popolazione scolastica. Ma si tratta di cifre con un’approssimazione per difetto. I numeri sono infatti viziati dal fatto che sono ancora troppo elevati i casi di mancato riconoscimento di questo disturbo dell’apprendimento.

Secondo la dottoressa Di Nora, la dislessia può essere uno dei fattori che contribuiscono in modo significativo alla dispersione scolastica. E riferisce dati che meriterebbero essere analizzati e approfonditi. «In Sardegna – dice – abbiamo un tasso di abbandoni scolastici del 27%. Altissimo. Soprattutto se si pensa che la media nazionale è del 17% ed è già molto superiore a quella europea. Il punto di partenza del ragionamento è che nell’Italia meridionale e insulare esiste una minore sensibilizzazione a questo disturbo specifico dell’apprendimento e, di conseguenza, una minore consapevolezza sociale. È del tutto legittimo pensare quindi che molti abbandoni siano provocati dal mancato riconoscimento di cause neuro-psicologiche e interpretati invece come deficit intellettivi».

La presidente dell’associazione dislessici conosce bene la storia di Enrico e conosce tutti gli sforzi fatti dalla famiglia per rimuovere tutti gli ostacoli che compromettevano il suo percorso scolastico: «La loro è stata una lunga e faticosa battaglia che si è conclusa con la scelta di far abbandonare al ragazzo la scuola pubblica e iscriverlo in un istituto privato, dove gli viene garantito il sostegno adeguato. La loro non è una sconfitta. La vera sconfitta in questa, come in tantissime storie simili, è la scuola. Perché un abbandono è sempre una ricchezza che si perde. Io, che sono stata educata e formata nella scuola rigida di altri tempi, ho imparato da mio figlio che la vera scuola non è quella che crea gerarchie di merito o cultura fine a se stessa. Come madre ho quindi capito che la scuola deve insegnare a capire i fatti e i fenomeni, deve costruire coscienze e offrire strumenti adeguati per la vita. Ma soprattutto nella scuola la diversità è un valore che va capito e coltivato. Perciò, oggi, mi sento di dire che nel caso di Enrico la scuola non è stata all’altezza del suo ruolo e oggi ha un debito enorme verso un ragazzo che doveva essere tutelato e aiutato. Non solo perché è giusto che sia così, ma anche perché esiste una legge dello Stato che lo impone». (p.m.)

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