La Nuova Sardegna

Sassari

in assise le immagini delle telecamere

di Nadia Cossu

SASSARI. Un Dna che certamente appartiene all’imputato e un secondo dna che altrettanto certamente non gli appartiene. Dettaglio del tutto irrilevante per la Procura, elemento invece da non...

20 luglio 2018
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SASSARI. Un Dna che certamente appartiene all’imputato e un secondo dna che altrettanto certamente non gli appartiene. Dettaglio del tutto irrilevante per la Procura, elemento invece da non sottovalutare per la difesa.

Nuova udienza, ieri mattina in corte d’assise, nel processo per l’omicidio di Alessio Ara, 36enne di Ittireddu ammazzato a dicembre del 2016. In carcere per quel delitto c’è Vincenzo Unali, allevatore di Mores, che avrebbe ucciso l’operaio per una “questione di onore”. Gli investigatori, infatti, hanno individuato come movente dell’omicidio la relazione che la vittima avrebbe avuto con la figlia dell’imputato, nonostante lei fosse fidanzata con un altro uomo e avesse un figlio. Un affronto che, a detta della Procura, Unali non era riuscito a sopportare. E per questo aveva ucciso Alessio Ara mentre entrava a casa della mamma. Fu lei, dopo aver sentito gli spari, a trovarlo riverso a terra, davanti all’uscio. Due fucilate a pallettoni, la seconda avrebbe colpito la vittima alle spalle, probabilmente Alessio era già piegato su se stesso, ferito a morte. Tesi confermata nella penultima udienza da due carabinieri della sezione investigazioni scientifiche del comando provinciale intervenuti quella sera a Ittireddu.

Ieri mattina è toccato al loro collega che materialmente analizzò le tracce biologiche rinvenute su un indumento che fu ritrovato vicino al luogo dell’omicidio e che, secondo il pm Giovanni Porcheddu, fu perso dal killer durante la fuga. Si tratta del pantalone di una tuta che sarebbe stato usato per avvolgere il fucile. «C’erano delle macchie rossastre e aveva un odore di lubrificante, di olio, grasso» aveva spiegato il militare che lo aveva repertato. E infatti su quel pantalone furono trovate tracce di polvere da sparo. Mentre su un laccio – che sempre secondo la ricostruzione della Procura fu utilizzato per chiudere l’estremità del pantalone – erano state recuperate tracce biologiche.

Ieri è stato spiegato come avvenne la comparazione con il Dna di Unali. L’imputato venne fermato dai carabinieri a un posto di blocco e fu sottoposto all’esame dell’etilometro. Dal “beccuccio” dove l’uomo soffiò fu successivamente prelevato il Dna che risultò compatibile con quello rinvenuto sul laccetto.

Ma per la difesa, rappresentata dall’avvocato Pietro Diaz, c’è un altro elemento su cui non si può sorvolare. All’interno del pantalone della tuta, gli stessi carabinieri della Scientifica hanno trovato il Dna di un’altra persona, al momento ignota. E questo particolare, a parere della difesa, dovrebbe far vacillare le certezze degli investigatori. Non è dello stesso avviso la Procura secondo la quale si tratterebbe di un dettaglio irrilevante dal momento che quella tuta poteva benissimo appartenere ad altri e in tal caso era ovvio che ci fosse un Dna differente. Ciò che invece per il pm è rilevante è chi ha stretto quel laccio per realizzare la custodia dell’arma. «E su quel laccio – ha confermato il teste – c’era il Dna di Vincenzo Unali».

Durante l’udienza è stato sentito anche un vicino di casa della vittima che per primo notò l’indumento sull’asfalto. La parte civile – rappresentata dagli avvocati Luigi Esposito e Ivan Golme – ha incalzato il teste per capire se, oltre alla tuta, avesse visto anche una persona fuggire. Ma l’uomo ha negato con fermezza questa possibilità.

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