La Nuova Sardegna

Sassari

«I malati con noi non sono soli»

di Nadia Cossu
«I malati con noi non sono soli»

Don Paolo, uno dei tre cappellani dell’Aou: tanti familiari ci chiedono di dare una carezza ai loro cari

02 aprile 2020
3 MINUTI DI LETTURA





SASSARI. «La prego, dia una carezza a mio padre». Parole e gesti d’affetto “commissionati” dai familiari dei pazienti. Padri, madri, fratelli, sorelle, mariti e mogli che sono ricoverati in particolare nei reparti di Rianimazione e di Malattie infettive. E che si sentono meno soli quando ricevono per tramite dei cappellani dell’ospedale un messaggio da parte dei loro cari.

«La cosa peggiore che stiamo sperimentando in questo momento è la solitudine». Don Paolo Mulas, sassarese di 33 anni, è uno dei tre sacerdoti che tengono in piedi la cappellania dell’Aou. Da tre settimane non mette il naso fuori dagli ospedali – Santissima Annunziata e Cliniche universitarie – dove nell’ultimo periodo l’emergenza Covid è esplosa con tutta la sua potenza.

«I familiari – racconta don Paolo – non possono avere contatti con i loro cari e allora, quando ci chiedono di portare un messaggio di vicinanza noi lo facciamo. Dalla porta, con tutte le precauzioni del caso». Ha imparato, questo giovanissimo e brillante sacerdote, a indossare tutti i dispositivi di sicurezza: «Il personale sanitario, sempre molto disponibile, ci ha spiegato come fare. Ed è così che ci muoviamo nei reparti. In modo da tutelare non solo noi stessi ma chiunque venga in contatto con noi».

I momenti dolorosi, in questo periodo, ci sono stati. «Ricordo l’estrema unzione impartita a un paziente. Uno di quelli che sono entrati qui senza sapere a cosa sarebbe andato incontro. L’unico conforto che ho potuto dare ai familiari è stato dir loro che il proprio caro non era morto da solo».

È proprio questa, infatti, l’emergenza nell’emergenza. Quel profondo senso di solitudine di un ammalato che trascorre le giornate in un letto d’ospedale con la paura di morire, di non poter più rivedere le persone amate. Di non poterci parlare. «Il personale sanitario si trova a dover affrontare anche questo – spiega don Paolo – oltre agli aspetti prettamente medici». Imbattersi, cioè, quotidianamente nella solitudine che ciascun paziente positivo al coronavirus è costretto a vivere. Spesso però medici e infermieri non hanno il tempo di ascoltare i malati, di fermarsi con loro. I ritmi sono veloci, le situazioni di allarme si susseguono una dopo l’altra. Ed è qui che la parola di un sacerdote può diventare un grande sollievo. «Non ci siamo solo per i cattolici, ci siamo per tutti. Perché sia io che don Piero Bussu che padre Eugenio Pesenti siamo assistenti spirituali e religiosi. Portiamo la nostra vicinanza ai cattolici così come ai musulmani. A chiunque». Ma guai a sentirsi chiamati “eroi”. «Non è il momento di sentirci tali. Facciamo ciò che dobbiamo, è la nostra missione. E quando ognuno si impegna e dà il proprio contributo, le persone che vivono una difficoltà non possono che trarne beneficio».

Don Paolo non ha paura per sè. «Non esco dall’ospedale da così tanto tempo perché non voglio mettere a rischio la mia famiglia o qualsiasi altra persona. Nei miei 20 metri di ufficio sto benissimo: computer, letto, forno a microonde». Cappella ufficio, ufficio cappella: la giornata comincia e finisce così. Tra messe in diretta, adorazioni eucaristiche, aggiornamento canale Youtube e bacheca Facebook, parole di speranza in corsia, aiuto concreto ai più deboli. «Sono diventato prete solo tre anni fa – racconta – don Paolo Mulas – da due anni sono in ospedale. Posso dire senza alcun dubbio che questi ultimi mesi valgono anni. Ma di una cosa sono certo: non c’è posto migliore dove vorrei essere ora».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

In Primo Piano
Santissima Annunziata

Sennori, cade dallo scooter all’ingresso del paese: grave una sedicenne di Sorso

Video

Impotenza maschile e suv, ne discutono le donne: la risposta di Geppi Cucciari ai talk show dove soli uomini parlano di aborto

Le nostre iniziative