Il delitto di Ittireddu, il 4 ottobre si torna in aula
Al via il processo d’appello per l’omicidio di Alessio Ara. Già condannato all’ergastolo Vincenzo Unali
23 settembre 2021
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SASSARI. Si torna in aula il 4 ottobre, stavolta davanti alla corte d’assise d’appello, per l’avvio del processo di secondo grado a carico dell’allevatore di Mores Vincenzo Unali, già condannato all’ergastolo a ottobre dell’anno scorso per l’omicidio di Alessio Ara, avvenuto il 15 dicembre del 2016 a Ittireddu.
Ara, 37 anni, era stato ucciso per il solo fatto – questa è sempre stata la tesi del pubblico ministero Giovanni Porcheddu – di aver avuto una relazione con Piera Unali, figlia dell’imputato e già impegnata con un altro uomo, Costantino Saba. Una storia d’amore che per il padre non doveva né poteva andare avanti. Il rischio era infatti che la fine della relazione “ufficiale” della donna con il suo compagno potesse compromettere gli affari di famiglia. Condivisioni di terreni e bestiame tra suocero e genero, grossi interessi economici messi in pericolo da un sentimento che, nell’ottica dell’allevatore di Mores, bisognava troncare sul nascere.
Il sostituto procuratore Porcheddu che ha coordinato le scrupolose indagini eseguite dai carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo provinciale di Sassari, aveva in mano quella che a suo dire era una prova chiave: il Dna. Tracce biologiche furono infatti rinvenute su un indumento che fu trovato vicino al luogo dell’omicidio e che, secondo il pm, fu perso dal killer durante la fuga. Si trattava del pantalone di una tuta che sarebbe stato usato per avvolgere il fucile. In particolare quelle tracce si trovavano su un laccio che, sempre secondo la ricostruzione della Procura, fu utilizzato per chiudere l’estremità del pantalone. Il Dna risultò compatibile con quello di Unali. Ma per la difesa all’interno dello stesso pantalone della tuta era presente anche il Dna di un’altra persona, ignota. E questo particolare, a parere dell’avvocato Pietro Diaz, avrebbe dovuto far vacillare le certezze degli investigatori. Ma la Procura lo aveva definito un dettaglio irrilevante dal momento che quella tuta poteva appartenere ad altri e in tal caso era ovvio che ci fosse un Dna differente. Secondo il pm andava invece evidenziata l’identità della persona che aveva stretto quel laccio per realizzare la custodia dell’arma. E su quel laccio c’era il Dna dell’imputato. (na.co.)
Ara, 37 anni, era stato ucciso per il solo fatto – questa è sempre stata la tesi del pubblico ministero Giovanni Porcheddu – di aver avuto una relazione con Piera Unali, figlia dell’imputato e già impegnata con un altro uomo, Costantino Saba. Una storia d’amore che per il padre non doveva né poteva andare avanti. Il rischio era infatti che la fine della relazione “ufficiale” della donna con il suo compagno potesse compromettere gli affari di famiglia. Condivisioni di terreni e bestiame tra suocero e genero, grossi interessi economici messi in pericolo da un sentimento che, nell’ottica dell’allevatore di Mores, bisognava troncare sul nascere.
Il sostituto procuratore Porcheddu che ha coordinato le scrupolose indagini eseguite dai carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo provinciale di Sassari, aveva in mano quella che a suo dire era una prova chiave: il Dna. Tracce biologiche furono infatti rinvenute su un indumento che fu trovato vicino al luogo dell’omicidio e che, secondo il pm, fu perso dal killer durante la fuga. Si trattava del pantalone di una tuta che sarebbe stato usato per avvolgere il fucile. In particolare quelle tracce si trovavano su un laccio che, sempre secondo la ricostruzione della Procura, fu utilizzato per chiudere l’estremità del pantalone. Il Dna risultò compatibile con quello di Unali. Ma per la difesa all’interno dello stesso pantalone della tuta era presente anche il Dna di un’altra persona, ignota. E questo particolare, a parere dell’avvocato Pietro Diaz, avrebbe dovuto far vacillare le certezze degli investigatori. Ma la Procura lo aveva definito un dettaglio irrilevante dal momento che quella tuta poteva appartenere ad altri e in tal caso era ovvio che ci fosse un Dna differente. Secondo il pm andava invece evidenziata l’identità della persona che aveva stretto quel laccio per realizzare la custodia dell’arma. E su quel laccio c’era il Dna dell’imputato. (na.co.)