Sassari, anni di umiliazioni alla madre: i figli filmano tutto e fanno condannare il padre
Processo choc in tribunale: fratello e sorella portano le prove, l’uomo sconterà 3 anni di carcere
Sassari Sono stati i due figli della coppia, esasperati e addolorati per le terribili umiliazioni e vessazioni che la loro madre era costretta a subire da anni, a rivolgersi ai carabinieri. Muniti di video e altre prove che “certificavano” quello che accadeva tra le mura domestiche, hanno scelto di denunciare il proprio padre. E, soprattutto, di salvare la loro mamma.
Si è conclusa due giorni fa, in un’aula del tribunale di Sassari, una dolorosissima vicenda giudiziaria che vedeva coinvolti marito e moglie di un paese del Sassarese. Il primo come imputato, la seconda come persona offesa. L’uomo, di 69 anni, è stato condannato dal giudice Antonello Spanu a tre anni di reclusione per maltrattamenti in famiglia, dovrà anche pagare le spese processuali e una provvisionale di 4mila euro a favore della ex moglie, assistita come parte civile dall’avvocato Alessandra Pompili (nelle more del procedimento la coppia si è separata). L’imputato era invece difeso dall’avvocato Cinzia Cossu.
Leggere le accuse contenute nel capo di imputazione è quasi come piombare in una specie di film dell’orrore. Alla donna era proibito quasi tutto, persino portarsi una bottiglietta d’acqua in campagna, dove a lavorare era lei. Mentre il marito stava seduto su un muretto a controllare che facesse tutto per il meglio, come hanno confermato diversi testimoni sentiti nel processo. La schiena curva e la camminata lenta, oggi, danno la misura di tante cose. Toccava a lei anche scaricare la legna dal bagagliaio dell’auto, davanti a lui che dava ordini. Il giorno in cui aveva portato in campagna l’acqua senza il suo permesso – scrive la Procura – l’aveva insultata con parole come “troia, bagassa”. Per poi “inseguirla con un bastone per tutto il terreno”.
Un calvario al quale la 63enne non era mai riuscita a sottrarsi. Neppure conosceva le tutele – come il “codice rosso” – che la legge riserva alle donne vittime di violenza. Non era a conoscenza di nulla e appena ha saputo che avrebbe potuto addirittura trovare rifugio in una casa protetta, è scappata dalla sua abitazione.
Si erano sposati molto giovani e assecondare le richieste del marito, come quella di farsi un piercing nelle parti intime – «ho obbedito per farlo stare tranquillo» ha raccontato – o uscire rigorosamente senza slip sotto gli abiti, nella sua testa era un atto dovuto. Incapace a ribellarsi, vergognandosi di rivolgersi a estranei per l’applicazione del piercing, lo aveva fatto da sola con uno di quegli attrezzi che si usano per mettere gli anelli nasali ai suini.
«Non le permetteva di uscire di casa né di guardare la televisione – è scritto nella richiesta di rinvio a giudizio – le impediva di mantenere contatti anche solo telefonici con i figli, le proibiva di andare dalla parrucchiera». Il 15 maggio del 2022 le aveva anche detto “che prima o poi l’avrebbe ammazzata”, un mese dopo “imponendole di non indossare indumenti intimi” aveva aggiunto “che se si fosse ribellata non avrebbe fatto in tempo ad arrivare di fronte a un giudice”.
In alcune occasioni “la minacciava con una pistola”. Non è un’accusa contenuta nel capo di imputazione ma il processo ha fatto emergere un’altra terribile verità, documentata dai video che gli stessi figli avevano portato in caserma. Erano scene di rapporti sessuali che l’imputato l’aveva costretta ad avere con altri uomini. Lei inizialmente lo aveva denunciato per questo ma poi, a processo, aveva ritrattato tutto e la vicenda si era chiusa.
Un giorno, distrutta dalle sofferenze e dalle umiliazioni – come ha raccontato in lacrime anche in aula – si era inginocchiata davanti al marito: «Ma cosa ti ho fatto di male?» gli aveva urlato. Come un ultimo, disperato tentativo di capire ciò che in realtà non aveva, né avrebbe mai potuto avere, alcuna spiegazione.