Caso Ramy, prima di giudicare bisogna conoscere i fatti
L’inseguimento da parte dei carabinieri e poi la morte del ragazzo caduto dal motorino hanno sollevato un acceso dibattito tra chi si è schierato con le forze dell’ordine e chi con i ragazzi che non si sono fermati all’alt
In queste settimane il dibattito pubblico è stato infiammato dal caso Ramy, 19enne egiziano morto lo scorso 24 novembre a Milano durante un inseguimento con i carabinieri. Ma lo scontro politico si apre a gennaio, quando viene pubblicato il video dell’inseguimento ripreso dalla videocamera di una delle auto dei carabinieri, con la ripresa delle telecamere di sorveglianza che inquadrano proprio il momento dello schianto dello scooter sul quale si trovava Ramy Elgaml, la cui caduta sarebbe stata, secondo alcuni, causata da uno speronamento da parte dei carabinieri.
Diversi sono stati gli attacchi ai militari, mossi da personaggi che si sono erti a giudici, accusandoli subito addirittura di omicidio anziché cercare di comprendere quale fosse la situazione che si era creata. I due ragazzi non si erano fermati all’alt dei carabinieri, scappando per le vie di Milano a velocità elevate, a notte fonda, percorrendo vie contromano e rappresentando così un serio pericolo sia per chiunque si trovasse in quelle strade sia per i carabinieri stessi, costretti a inseguire la moto per 20 minuti. Inoltre, c’è chi dice che i carabinieri avrebbero sbagliato anche solo a inseguirli, con la motivazione che a bordo del motorino c’erano semplicemente due ragazzini. Forse, però, a questi commentatori sfugge un particolare, ossia che i carabinieri non lo potevano sapere. Tuttavia, a rimuovere ogni dubbio, pochi giorni fa, è la dichiarazione dei magistrati, secondo cui i carabinieri hanno operato, durante l'inseguimento, secondo le regole stabilite, come prevede l’articolo 55 del codice di procedura penale, per il quale «la polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale».
Io credo che non si possa pensare che per un atto compiuto nell’esercizio del proprio compito, un carabiniere o un poliziotto venga iscritto nel registro degli indagati, sia costretto a pagare un avvocato e si veda sospeso dal servizio. E’ una chiara violazione del principio di non colpevolezza della nostra Costituzione.
*Sandro è uno studente del liceo Azuni di Sassari