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Floyd Allen, la leggenda: «Sassari nel mio cuore»

Andrea Sini
Floyd Allen, la leggenda: «Sassari nel mio cuore»

Trent’anni dopo, i ricordi del primo americano mai approdato al Banco

18 aprile 2020
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SASSARI. «Sassari l’abbiamo vissuta intensamente: passeggiavamo in centro, frequentavamo tante persone, andavamo al mare anche fuori stagione. Mi hanno voluto talmente bene che una pizzeria inserì nel menù un piatto che aveva il mio nome».

Il nome è quello di una leggenda, l’epoca è quella dei pionieri ma il sentimento d’amore – reciproco – è rimasto lo stesso. Trent’anni dopo, migliaia di partite e centinaia di giocatori più tardi, Floyd Allen conserva il suo posto in prima fila nel pantheon delle leggende della Dinamo. A pochi giorni dal sessantesimo compleanno del club sassarese, dalla sua casa nel verde ad Huntsville, in Texas, il primo americano ad avere mai indossato la maglia biancoblù (allora grigioamaranto, per motivi di sponsor) apre lo scrigno dei ricordi legati a quell’indimenticabile stagione 1989-’90, la prima in assoluto della Dinamo in serie A2.

Mister Allen, cosa ricorda del suo periodo trascorso a Sassari?

«Direi tutto, anche se sono passati tanti anni. È stata l’ultima stagione della mia carriera: eravamo una neopromossa e ottenemmo una difficile salvezza. Feci parte della squadra anche l’anno successivo ma dopo poche partite mi dovetti fermare definitivamente per un grosso problema alla schiena».

Il suo apporto fu determinante.

«Al tempo si potevano schierare solo due americani, c’eravamo io e Tom Sheehey e chiaramente dovevamo assumerci grosse responsabilità. Ma ricordo che anche gli italiani erano validissimi, lo posso dire perché ho giocato in mezza Europa».

Lei in effetti arrivò alla Dinamo a fine carriera, ma l’età non le impedì di dominare in area e di giocare sino a 50 minuti in una partita.

«Avevo 37-38 anni, ero molto maturo ma mi sentivo ancora in gran forma. Mi piaceva da morire giocare, amavo la competizione, mi allenavo tanto. E poi non ero uno come gli altri...».

In che senso?

«Sono stato il primo straniero e anche il primo giocatore di colore della storia della Dinamo. Questa è una cosa che mi inorgoglisce ancora oggi. Sassari a quel tempo era una novizia a certi livelli, so che negli anni ha fatto un certo percorso di crescita ma le “prime volte” restano per sempre».

A proposito, cosa sa della Dinamo?

«Non mi aggiorno costantemente, ma c’è il mio amico ed ex compagno Massimo Bini che ogni tanto mi manda qualche notizia. So che la società è diventata un club di élite del basket italiano e questo mi fa enormemente piacere. Ho scoperto da poco che l’ultima finale scudetto è stata tra Sassari e Venezia, due delle mie ex squadre. Incredibile».

Sono le piazze delle quali ha i migliori ricordi?

«Penso di sì. A Venezia sono rimasto 3 anni, mio figlio Floyd jr è nato lì, ricordo ancora il posto: era al Lido, Ospedale del mare (lo dice in italiano, ndr.). Ma sono stato molto bene anche in Francia, dove ho vinto un titolo nazionale e un anno, con una media di 30 punti a partita, sono stato eletto miglior giocatore del campionato, così come in Spagna. Ma diciamo che l’Europa è stata casa mia per più di 10 anni».

A proposito, come mai niente Nba per un giocatore dominante come lei?

«Sono nato in Arkansas e sono cresciuto a Reno, in Nevada. Al college, qui ad Huntsville, dove ho conosciuto mia moglie, dominavo. Nel mio anno da senior avevo cifre importanti, prima del Draft Nba si erano già affacciati i Milwaukee Bucks e i Boston Celtics».

Poi cosa accadde?

«Ero un giocatore selvaggio: voi avete conosciuto il Floyd Allen “anziano”. Al tempo ero “wild and dirty”, saltavo, schiacciavo, andavo a stoppare qualsiasi cosa e mi infortunavo spesso. Mi ero già rotto un gomito e un polso. Poi mi saltò un ginocchio e dovetti restare fermo quasi due anni. A quel tempo, se il tuo nome non usciva al draft, poi diventava davvero difficile entrare nel giro Nba. Ma non ho il minimo rimpianto: ho viaggiato tanto e giocando in Europa mi sono divertito da matti. Ho fatto le coppe, sono stato in campo con giocatori incredibili come McAdoo, Joe Bryan e Dalipagic, oltre a tanti italiani forti».

Insomma, a quasi 40 anni atterrò a Sassari per giocare in A2 con una neopromossa.

«Arrivavo da Arese, venni in Sardegna con grande entusiasmo e il primo o il secondo giorno portarono me, mia moglie e i miei tre figli a vedere Stintino. Beh, fu amore a prima vista. Le mie figlie maggiori si trovavano benissimo a scuola, la gente ci amava e la società era come una famiglia».

Ricorda il presidente Dino Milia?

«Ma certo! L’avvocato (ancora in italiano, ndr), lo chiamavamo tutti così. Ricordo sua moglie, suo figlio Sergio che era un dirigente, tutte persone a modo. Il secondo anno, quando mi infortunai e dovetti smettere, l’avvocato mise sotto contratto Dallas Comegys, poi mi chiamò e mi disse: non si preoccupi, lei avrà tutti i soldi che avevamo pattuito. Un gesto da galantuomo che non ho mai dimenticato».

Cos’altro ricorda?

«Il calore e l’affetto della gente, la città ci aveva adottato. La pizzeria che frequentavamo aveva la pizza “Allen” e per il compleanno di mio figlio venne organizzata una festa incredibile al palazzetto, con compagni e tifosi, della quale tuttora parliamo con stupore e allegria».

Di lei si erano completamente perse le tracce. Cosa ha fatto in tutti questi anni?

«Una volta tornato in America ho messo a frutto la mia passione per la cucina e le mie esperienze nel vostro paese, e ho aperto una trattoria italiana che ho gestito per una quindicina d’anni. Ora ho 68 anni, sono vedovo ma sono fortunato: ho sei nipoti che mi fanno stare bene».

La Dinamo compie 60 anni: è più giovane di lei...

«Questa cosa mi fa sorridere. Auguro alla società, ai tifosi e alla città tante altre soddisfazioni. Sarò sempre legato a Sassari e i ricordi di quell’esperienza sono più vivi che mai. Sapere che dopo tanti anni i tifosi si ricordano ancora di me è davvero emozionante, vale uno scudetto».

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