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Stefano Arrica: «Papà, Riva e il Cagliari un’emozione senza fine»

Roberto Muretto
Stefano e Andrea Arrica con Boniperti
Stefano e Andrea Arrica con Boniperti

I ricordi del figlio di Andrea, il dirigente rossoblù che fu il motore dell’impresa scudetto

21 aprile 2020
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La passione per il calcio l'ha ereditata da suo padre. Stefano Arrica è figlio di Andrea, il motore principale dello scudetto del Cagliari. L’architetto lo sport ce l'ha scolpito nel Dna: è stato presidente del Cus Cagliari e ora è il numero 1 del golf in Sardegna. Cinquant'anni fa era un ragazzino che ha vissuto con i campioni dell'epoca la magia di una vittoria che rappresenta una importante pagina di storia non solo sportiva per l'isola. Stefano ha scritto un libro (uscirà a breve) per raccontare quel periodo. Durante l'intervista fruga nelle tasche della memoria focalizzando tutta una serie di episodi che nel suo cuore hanno un posto speciale.

Scudetto, qual è la prima cosa che le viene in mente?

«Ero un bambino di 10 anni che seguiva suo padre. Qualche volta anche in trasferta col permesso di mamma. Sono stato testimone di un momento unico, storico per la Sardegna dal punto di vista sportivo e non solo».

La memoria fotografica che cosa le trasmette?

«Senso di gioia. Ci siamo sentiti per la prima volta rispettati, dovunque andavamo. La Sardegna allora era vista come un luogo di punizione. Quel momento ha fatto capire a tutti che essere sardi voleva dire essere importanti».

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Una immagine che non dimenticherà mai?

«Il sorriso misto al pianto di papà. Mio padre non ha mai attribuito a se stesso meriti particolari, diceva che era stato fortunato. Sono stati gli altri a riconoscergli le intuizioni. Il suo socio Rocca gli chiese l'anno prima di lasciare il Cagliari, papà rispose no. Rocca allora ironizzò così: "ma vuoi vincere il campionato"? Papà lo guarda e gli risponde: sì. Ma c’è un’altra immagine alla quale sono molto affezionato»

Non ci tenga sulle spine.

«La foto di Riva a torso nudo con le mani in segno di vittoria. Sembrava un dio greco».

Il 12 aprile è stata una giornata di festa. Cosa ricorda?

«Nel calcio la scaramanzia era un rito. Non era stata organizzata nessuna festa, ci ha pensato mia madre a preparare tutto in poche ore. E' stata fatta a casa mia ed è venuta fuori una cosa eccezionale. Ricordo i tifosi sotto le finestre, i giocatori che si affacciavano per salutare, i clacson che suonavano impazziti».

Suo padre come viveva le partite allo stadio?

«A differenza di adesso con i presidenti vengono sistemati in modo da non avere contatti, papà portava a pranzo e a cena i dirigenti delle squadre avversarie. Poi seguivano la gara uno accanto all'altro. Boniperti e Carraro gli riconoscevano il senso dell'amicizia e una grande lealtà».

Ci racconta qualche aneddoto su Andrea Arrica?

«Sono tantissimi. Ne ricordo due in particolare: la firma sul tovagliolo per acquistare Albertosi. Papà e Baglini, patron della Viola, hanno concluso l'affare al ristorante ed entrambi erano un po' su di giri. Al giorno d'oggi quella firma non avrebbe valore, allora era come un patto d'onore, fatto tra persone perbene».

Vada avanti.

«Papà fumava tanto. Una volta ha portato la squadra in Svizzera da un mago e metà dei giocatori aveva smesso di fumare. Tra questi non c'era Riva che quel vizio non lo ha mai perso. Mio padre era apprensivo per i suoi calciatori e aveva uno spiccato senso dell'ospitalità».

Il giocatore al quale lei si sente più legato?

«Gigi Riva. Forse perchè per papà era come un figlio. Lui lo ha voluto, ha creduto in quel ragazzo da subito. Il contratto per il passaggio di Gigi al Cagliari è stato firmato nell'intervallo di una partita della nazionale Juniores. E' stato pagato ben 37 milioni».

Tanti soldi per quegli anni.

«Sì, tanto che il cda della società gli ha contestato la spesa. Lui alzò la voce rispondendo "se volete li tiro fuori io". Gigi non era nemmeno partito per la Sardegna che Dall'Ara, presidente del Bologna, gli propose di cederglielo per 50 milioni. Papà ha rifiutato. Riva è arrivato a Cagliari e subito dopo è stato raggiunto dalla sorella Fausta a cui era legatissimo. Lei ha portato anche suo figlio. Mi ricordo che quel ragazzino veniva al mare con noi».

Chissà quanto la invidiavano i suoi amichetti, quante volte le hanno chiesto di fargli conoscere Riva?

«Ho perso il conto. Capivo di essere un bambino fortunato. Facevo la quinta elementare alla scuola “Letizia”. Gigi un giorno mi venne a prendere per andare poi all'allenamento. Quando è entrato nella scuola si può solo immaginare cosa è successo. La mia maestra, Teti Piga, è impazzita, rimase sconvolta perchè secondo me era innamorata di lui. Gigi entrò in classe e la maestra fece lei il mio compito per farmi andare via subito».

È vero che suo padre non lo cedette alla Juventus su pressioni di Angelo Moratti, allora patron dell'Inter?

«Della famiglia Moratti sono molto legato a Massimo, un vero amico. Papà ha in qualche modo "usato" Riva, sapeva che non sarebbe mai andato via. Dico “usato“ perchè è stato un modo per ottenere dei favori per il Cagliari. Lo aveva promesso a tutti i presidenti ai quali diceva "se Gigi andrà via lo venderò a te”. Questo gli ha consentito di portare in Sardegna calciatori di grande valore. I presidenti degli altri club, speranzosi di potersi prendere Riva, esaudivano le sue richieste».

Per il Cagliari Riva è stato...

«Come Diego Armando Maradona per il Napoli».

Molti dei giocatori sono rimasti a vivere a Cagliari. Lei sa perchè?

«Perchè è stato papà a convincerli.

A tanti di loro ha dato idee per un’attività lavorativa a fine carriera. Se si parla con i calciatori artefici di quella impresa, tutti dicono "il Cagliari era Andrea Arrica". Papà voleva bene a tutti ed è stato riferimento dei giocatori anche quando non era più dirigente del Cagliari. Per me quei campioni sono dei fratelli maggiori».

Torniamo a quel 12 aprile di cinquant'anni fa.

«La gente per la strada, i clacson che hanno suonato per tutta la notte. C'è stato chi ha paragonato lo scudetto del Cagliari alla fine della guerra».

Con la Torres suo padre che rapporti aveva allora?

«Era un uomo di sport e provava piacere se le squadre sarde ottenevano buoni risultati. Ricordo che con Allasio c'era una sincera amicizia».

Un altro scudetto tra cinquant’anni?

«Ora è molto più difficile, il calcio è cambiato e la forbice tra le grandi e le piccole si è ulteriormente allargata».

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