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Gli 80 anni di Gianni Mura e quelle pennellate d’autore

di Andrea Sini
Gli 80 anni di Gianni Mura e quelle pennellate d’autore

ll grande giornalista è scomparso nel 2020

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Sassari Chissà quale vino avrebbe stappato per festeggiare questo compleanno così importante. Chissà come avrebbe cantato le imprese di Pogacar, cosa avrebbe scritto quando se ne sono andati Maradona, Vialli e Paolo Rossi, che parole avrebbe trovato per raccontare una Paola Egonu, un Mattia Furlani. Chissà cosa avrebbe detto di Gaza rasa al suolo e dei suoi abitanti trucidati o ridotti alla fame, che voto avrebbe dato nella sua rubrica alla decisione di far giocare Milan-Como in Australia, quale gioco di parole avrebbe usato per definire uno qualsiasi degli ultimi vincitori del festival di Sanremo.

Gianni Mura il 9 ottobre avrebbe compiuto 80 anni e se non se ne fosse andato il primo giorno di primavera del 2020 tutte queste domande avrebbero come risposta pezzi memorabili, frasi indimenticabili, aforismi da appendere alle pareti dell’ufficio con i post-it.

Invece il più grande giornalista degli ultimi quarant’anni non c’è più da sei Tour de France, cinque campionati e un mondiale di calcio, e chissà se avrebbe sorriso all’idea che qualcuno oggi conti la sua assenza attraverso gli eventi sportivi con i quali ha portato il linguaggio giornalistico su vette difficilmente avvicinabili.

La sua leggendaria Olivetti Lettera 32 ha smesso di ticchettare cinque anni fa, dunque: poco o tanto, tantissimo, perché nel frattempo lo sport è andato avanti, nuovi campioni sono sbocciati, altri se ne sono andati, ma l’unica certezza per i suoi fedelissimi lettori è che ci siamo persi e ci perderemo tantissimo.

C’è anche un’altra certezza, in effetti, ed è tutta nello sterminato archivio di pezzi, interviste scritte e concesse, raccolte di articoli, libri e prefazioni scritti per editori mainstream ma anche per associazioni di carità.

Come il mensile di Emergency o Scarp de’ tenis, la rivista dei senzatetto pubblicata dalla Caritas diocesana di Milano.

La sua firma resta legata inscindibilmente a Repubblica, il quotidiano per il quale iniziò a scrivere nel 1976 dopo un’esperienza alla Gazzetta, entrando stabilmente in redazione dal 1983.

Tra Olimpiadi, interviste al campionato e la rubrica “Sette giorni di cattivi pensieri”, incastrò il suo vero amore, il Tour de France.

Non il ciclismo, non il Giro, proprio il Tour e tutto quello che la Grand boucle, attraversa, o si porta dietro. Compresa la cucina, i vini, i paesi e le storie di varia umanità.

«Sono rigoroso e testardo? Come altro dovrebbe essere – diceva – il figlio di un carabiniere sardo di Ghilarza e di una maestra padana?». Amava i gregari, soprattutto, ma anche campioni: su Pantani scrisse pezzi indimenticabili e alla morte del Pirata dettò a braccio al telefono, tutto d’un fiato, un testo lungo 5 cartelle che oggi andrebbe studiato in tutte le scuole di giornalismo.

Il suo pezzo preferito però lo scrisse a Sassari, quando venne a raccontare la storia della pallavolista Rodica Popa. Non amava i social “che portano a una frantumazione dei rapporti e un dichiarazionismo folle”. «Neanche Berlinguer e Togliatti avevano un parere al secondo – argomentava –. Sapete cosa mi diceva Platini? Intervistato tutti i giorni, sarebbe sembrato un cretino anche Einstein». Di un pezzo al giorno di Gianni Mura, invece, per i tanti “senzaMura” sparsi per l’Italia, ancora oggi sarebbe impossibile stancarsi.

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