La Nuova Sardegna

Sesso e sangue all’università

di LUCIANO MARROCU
Sesso e sangue all’università

La prima puntata del giallo di Luciano Marrocu “Un delitto alla Sapienza”

23 giugno 2016
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di LUCIANO MARROCU

È tremendo che possa succedere una cosa del genere, che un poveraccio entri nella stanza del suo direttore di dipartimento, col quale per altro non corre buon sangue, e lo trovi reclino sulla scrivania, con conficcato nel petto, proprio all’altezza del cuore, un tagliacarte. Ma ancora più tremendo che quello stesso poveraccio, che avuto la pessima idea di palpeggiare l’ormai cadavere cercando di estrargli il tagliacarte dal petto, venga accusato, a qualche giorno di distanza dal rinvenimento del . de cuius, di essere lui l'assassino.

Fu Beatrice, la segretaria del dipartimento con la quale qualche volta facevo colazione al bar, a informarmi dei dettagli nell’atrio della facoltà, dopo che lei stessa mi aveva telefonato a casa per informarmi spaventata del fatto.

«La cosa peggiore è che tutto questo sia avvenuto in facoltà», erano state le sue prime parole. «Non siamo abituati a queste cose. Insomma, quello che è successo nessuno se lo sarebbe aspettato. Vabbene che il nostro direttore, Caruso insomma, era quello che era, ma una morte così… con un tagliacarte, poi. Ti immagini un tagliacarte conficcato nel petto?»

Evitai di chiederle se un coltello a serramanico o un kriss malese sarebbero andati meglio. Beatrice, qualche tempo prima, aveva avuto una relazione col preside della facoltà che poi l’aveva mollata, un abbandono privo delle delicatezze che ogni gentiluomo dovrebbe avere in queste circostanze. Incapace di ordire vendette efficaci, Beatrice si era limitata alla modesta ritorsione di rivelare al mondo alcune delle più marginali e in fondo innocenti schifezze fatte dal preside nell’esercizio delle sue funzioni: segreti di Pulcinella in realtà, visto che tutti nella nostra facoltà erano sempre a conoscenza di tutto.

Beatrice è emiliana, di Parma per l’esattezza. Proprio lei mi aveva raccontato come fosse scappata da Parma quando si era saputo che era la galante – a Parma dicono così, la galante – del direttore del dipartimento di Anatomia di quella università, il nome non lo ricordo, un famoso anatomopatologo… per non farla lunga, Beatrice era l'amante del famoso anatomopatologo, questo sino a quando la moglie dell’anatomopatologo non aveva saputo della tresca, ed era allora che l’avevano costretta a trasferirsi da noi. Che poi si capisce benissimo che Medicina di Parma ci aveva perso e noi di Lettere di Roma “La Sapienza” ci avevamo guadagnato. Perché Beatrice, scusate se non l’ho detto prima, è proprio uno schianto.

Tornando a noi, Beatrice aveva cominciato a entrare nei particolari. «Ma guarda, tu. Doveva essere proprio quello stranito di Ervas a trovarlo morto nella sua stanza, con i problemi che c’erano stati tra loro, la sai anche tu la storia».

Quella sera stessa avevo chiamato Ervas. Non che fossi particolarmente addolorato per la morte di Caruso, anch’io però trovavo la cosa incongrua, fuori registro. «Delitto alla Sapienza» hanno scritto il giorno dopo i giornali ed è bastato questo per dare a una vicenda che sarebbe potuta succedere dovunque un tono tipicamente romano. Le cose succedono a Roma nella stessa maniera che dappertutto, ma i romani hanno finito per credere di essere come vengono raccontati dal cinema e come si raccontano loro stessi e cioè come fossero dentro un’interminabile e per questo noiosissima Festa de’ Noantri.

Il racconto di Ervas è stato come sempre diffuso e dettagliato. Era arrivato in dipartimento alle otto e trenta dopo una notte in gran parte dedicata alla riflessione filosofica, aveva poggiato la solita borsa piena di libri nella stanza che divide con me e per una mezz’ora aveva controllato i registri che, unico nella facoltà, tiene a posto. Poi risalendo al contrario l’andito che aveva percorso poco prima, era arrivato di fronte alla stanza del direttore, l’ultima sulla sinistra e dunque la prima sulla destra per chi entra nel dipartimento, aveva bussato e, visto che nessuno gli rispondeva, aveva aperto la porta. Da lontano, si era fatto l'idea che il direttore dormisse. Aveva dovuto avvicinarsi alla scrivania per farsi un’idea su che cosa fosse successo. Mi riferì ciò che aveva già detto alla polizia, di aver pensato cioè che, nonostante il coltello nel petto all’altezza del cuore, Caruso fosse ancora vivo. Non sapeva nulla sulla morte, se non nei suoi significati filosofici, ma nessun insegnamento filosofico ti sa dire se qualcuno è vivo o morto. Gli ho fatto la domanda che probabilmente gli aveva già fatto la polizia, quando immediatamente dopo la scoperta del cadavere era arrivata in dipartimento, sul motivo che l’aveva spinto a cercare Caruso a quell’ora. La risposta, prontissima, era stata che proprio alle nove e mezzo aveva con lui un appuntamento e, conoscendo il tipo, aveva pensato di doverglielo ricordare.

«Tu e Caruso un appuntamento?» ho domandato, senza nascondere la sorpresa.

«C'è forse qualcosa di strano nel fatto che un docente...»

«Non ci sarebbe nulla di strano. Tu e Caruso, però, non è che vi trattaste molto».

In realtà, era Caruso che si comportava come se Ervas non esistesse, senza però nascondere l’ostilità, al limite del disprezzo, che nutriva nei suoi confronti. Sentimenti, comunque, perfettamente ricambiati da Ervas.

La versione di Ervas sull’origine della inimicizia con Caruso assomiglia molto al plot dell’Iliade, con se stesso nei panni del giovane Paride e Caruso in quella del più anziano Menelao. Con la differenza, tutt’altro che secondaria, che questa volta è stato Menelao a rapire la moglie a Paride, cioè a dire è stato il più vecchio a rapire la donna del più giovane.

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