La Nuova Sardegna

Nella trappola del professor Caruso

di LUCIANO MARROCU

Un sottile gioco di seduzione tra la “Fenomenologia” hegeliana è l’arte vitalistica di Frida Kahlo

28 luglio 2016
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di LUCIANO MARROCU

Niente di strano, visto il percorso, che Giulia indirizzasse i suoi studi verso l’Estetica e dunque verso il nostro dipartimento. Dove trovò, in un certo senso ad attenderla, Caruso. Tutti e due erano impegnati in un difficile guado, anche se in direzioni opposte. Caruso, travolto da un successo mediatico e accademico che pareva (soprattutto a lui) inarrestabile, aspirava a una presenza pubblica che fosse in tutti i sensi all’altezza della considerazione da cui si sentiva circondato.

Mettendola nel modo più banale: aveva cominciato a non trovare all’altezza, sorprendendosi a volte a vergognarsene, la affettuosa compagna di una vita e madre dei suoi figli, sino ad allora sempre al suo fianco. Somigliava, sua moglie, a Nina Krusheva, la moglie di Nikita Krushev, ed esibiva borsette simili a quelle che Nina portava in giro per il mondo a fianco del marito, più sporte per la spesa che borsette. Ma aveva un bel ripeterselo, Caruso, che sua moglie, così timida e modesta, illustrava perfettamente l’elegante simplicitas del granduomo. Il disagio rimaneva. Occhi chiari, capelli crespi ancora folti, il profilo di un imperatore romano, Caruso trasudava potere, potere accademico soprattutto, sostenuto da un realismo dell’organizzazione che, mi disse poi Giulia, l’avevano colpita in proporzione a quanto una studiata disorganizzazione era stata sino ad allora, per lei, regola e stile di vita.

Nessuno si aspettava da una borsista del dipartimento che frequentasse le lezioni ma Giulia pensò bene di frequentare il corso di Caruso, dedicato quell’anno a una lettura «per così dire decostruzionista», parole di Caruso, della «Fenomenologia dello spirito». Caruso a lezione appariva sempre di buon umore. Era reduce da sei mesi trascorsi come visiting professor alla Brown University, un’esperienza che aveva cambiato completamente il suo modo di vestire. Ora portava giacche di cuoio e blue jeans e le sue lezioni erano inframezzate da espressioni in inglese che gran parte dei suoi studenti faticava a comprendere. Giulia capì invece che esisteva un relazione precisa tra la giacca di cuoio e l’approdo decostruzionista, e si sentì rassicurata dal fatto che esso avvenisse su un terreno a lei conosciuto, la «Fenomenologia dello spirito» appunto.

Una settimana dopo l’ultima delle lezioni del corso, ben in vista sulla scrivania che condivideva con almeno altri cinque borsisti e borsiste del Dipartimento, trovò un biglietto con il quale Caruso la convocava. Non era mai entrata nella stanza del direttore ma, inaspettatamente, si sentì subito a suo agio. Sulla parete, dietro la sua scrivania, e dunque sotto gli occhi di Giulia, un Walter Benjamin poco più che trentenne, la faccia triste e un po' da matto di uno a cui è stata rifiutata l’abilitazione all’insegnamento universitario. A fianco di quella di Benjamin, quasi a costituire un duo di angeli custodi (o anche, a scelta, di divinità pagane) la foto di Hannah Arendt. Una Hannah Arendt giovanissima, come spiegherà di lì a qualche minuto Caruso a Giulia, sottolineando come proprio la torbida e provocante gioventù di Hannah Arendt spieghi l’altrettanto torbido sentimento che Martin Heidegger nutre per lei al tempo di quella fotografia.

Ma questo discorso verrà più tardi, quasi a fissare a parole qualcosa che in buona parte Caruso le ha già detto con lo sguardo. Ora è il momento del discorso formale che Caruso le rivolge guardandola fissa negli occhi, le mani giunte strettamente sulle ginocchia dopo essersi un po’ allontanato dalla scrivania. Un discorso come si è detto formale, anche se, inaspettatamente, Caruso le dà del tu, invitandola a fare altrettanto perché così si usa tra studiosi.

«Se non mi sbaglio», disse Caruso, «tu hai una borsa che godi nel nostro Dipartimento ma riguarda Storia dell’arte contemporanea».

«Sì professore».

Caruso sorrise. «Cosa ho detto un attimo fa? Pippo, per te sono Pippo...».

"Certo prof… certo, Pippo."

Caruso riprese l’espressione seria che aveva avuto sino a un attimo prima: «Ho letto la tua monografia su Frida Khalo. Di grande interesse».

Giulia era a questo punto arrossita, senza però rinunciare a illustrare più dettagliatamente la sua teoria su Frida. Se Frida era rimasta di almeno una spanna al di sotto di ciò che chiamiamo arte, disse, ciò era a causa della troppa vita – troppo dolore, troppo amore – che si era infilata nel suo lavoro e che le aveva tolto la lucidità che l’arte richiedeva.

Mentre Giulia articolava al meglio questo discorso, Caruso prese una postura per così dire da ascolto, di tre quarti rispetto a lei e senza più guardarla negli occhi, quasi che il resto del corpo fosse solo il supporto di quell’orecchio che stava ora a non più di una spanna dalla sua bocca. Giulia parlò e poi parlò ancora, con una sicurezza, una verve di cui lei stessa si sarebbe detta, raccontandomi più tardi, sorpresa. Poi, ritenendo che tutto ciò che poteva essere detto era stato detto e non riuscendo più a sostenere il silenzio estatico con cui da un po’ Caruso accompagnava le sue parole, si alzò e salutando si diresse alla porta. Caruso si alzò anche lui, accompagnandola. Arrivata che fu alla porta si voltò, forse per rinnovare saluti e ringraziamenti, trovando a pochi centimetri dal suo viso il viso di Caruso, a pochi centimetri dalla sua bocca, la bocca di Caruso. Baciarsi fu una fatalità e in un certo senso un tranello nel quale ambedue caddero all’unisono. Ciò che seguì fu la conseguenza perfino logica di quel bacio.

Così, a non più di un anno dall’ingresso di Giulia in Dipartimento, Caruso ottenne che le fosse bandito un posto di seconda fascia di Estetica. L’esito del concorso, né più né meno prevedibile della media dei concorsi della nostra area disciplinare, fu favorevole a Giulia.

6. CONTINUA

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