La Nuova Sardegna

«Il mondo a colori di chi combatte con gli ultimi»

di Roberto Sanna
«Il mondo a colori di chi combatte con gli ultimi»

Esce la biografia di padre Salvatore Morittu. «Ai tossicodipendenti chiedo lavoro e cultura»

15 dicembre 2016
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SASSARI. «Il mio cammino con i tossicodipendenti si fonda su due pilastri: il primo è l’amore, il secondo il progetto. E sono interconnessi. Perché l’amore da solo non basta, prima o poi si trasformerebbe in odio. Così come un progetto da solo non può andare avanti senza essere supportato dall’amore». Padre Salvatore Morittu, oltrepassatolo striscione dei settant’anni, decide di raccontarsi in un libro scritto insieme a Giampaolo Cassitta; un’opera che svela i suoi angoli più nascosti e aiuta a capire meglio le sfumature di una delle figure più importanti in Sardegna nella lotta alla tossicodipendenza, pioniere delle comunità di lavoro che ha fondato agli inizi degli Anni Ottanta. Non ha mai avuto paura di prendere posizioni decise anche all’interno della Chiesa, scegliendo di rimanere frate e abbandonando la strada del sacerdozio. E non ha paura di raccontarsi «perché ho avuto una vita bella, più di quanto potessi immaginare. A settant’anni ho sentito il bisogno di condividere quanto mi è stato donato, compreso lo stupore di vedere come è stato il mio percorso di vita.

Perché stupore?
«Geneticamente e culturalmente ero destinato ad altro. Sono figlio di una famiglia di pastori di Bonorva, ultimo di quattro figli. Non eravamo ricchi ma nemmeno poveri, alla fine della Seconda guerra mondiale la mia famiglia aveva terreni e bestiame, non potevamo certo lamentarci. Però di fronte a casa, a cinquanta metri, c’era un convento. Io sono diventato frate, una delle mie sorelle suora. La mia storia è fatta di incontri che hanno segnato una serie di deviazioni da quello che sembrava il cammino naturale e quasi scontato di un ragazzo nato per essere pastore».

Il primo di questi incontri?
«Alle scuole elementari, con una maestra che convinse la mia famiglia a farmi continuare gli studi. Per le scuole medie andai dai frati, che poi mi mandarono a San Pietro di Silki per il ginnasio. Per il liceo fui inviato nel monastero di monte Laverna, in Toscana, luogo austero e severo. Nel 1968 andai a studiare teologia a Firenze, in piena contestazione, anche interna, e fu un’esperienza molto formativa. Aderii a una corrente di pensiero che voleva coniugare Marx col Vangelo, si chiamava “Cristiani per il socialismo”. E in quegli anni maturai la decisione di restare frate, dopo altri studi a Gerusalemme e una lunga notte di pensieri a Palmira. Tornai alla Statale di Roma, feci una tesi sui manicomi proprio nel periodo nel quale si discuteva la legge Basaglia».

L’incontro col mondo delle tossicodipendenze in quali circostanze è avvenuto?
«Tramite un superiore che a Cagliari mi fece conoscere gli scritti di padre Eligio Gelmini, il padre spirituale di Gianni Rivera. La notte stessa diedi la disponibilità ad avviare un progetto: avevo capito che quello sarebbe stato il modo giusto per utilizzare tutto il patrimonio di conoscenze che avevo accumulato negli anni precedenti. La prima comunità nacque a Cagliari, svuotando per metà un convento. Da lì mi spostai a Siligo, nel 1982».

Sono passati più di trent’anni: cosa le ha portato questa esperienza?
«Intanto, come ho già detto, la possibilità di far confluire tutto assieme quello che ho imparato nella prima parte della mia vita. E poi la consapevolezza di sentirmi autenticamente padre. Padre nella durezza dell’impegno, nel fatto di essere sempre coerente perché se chiedi qualcosa non puoi più sbagliare».

E lei che cosa chiede a un ragazzo che arriva nella sua comunità?
«Tre cose. Prima di tutto la conoscenza di se stesso. Poi il lavoro. Non retribuito ma vero, come veri sono gli animali e la terra di cui si occuperà. E poi la cultura. Noi leggiamo tanto, guardiamo poca televisione. L’obiettivo finale è portare la persona a essere un “militante disadattato”, che combatte per le idee che si è creato ed è consapevole di far parte di una minoranza».

Ha avuto anche sconfitte e delusioni, in questi anni.
«Succede, quando lavori coi cervelli. E le persone possono essere fragili. Non solo gli ospiti, anche gli operatori. L’importante è far fruttare queste sconfitte».

Perché non collabora con la sanità pubblica?
«Per due motivi. Il primo è che mi imporrebbero solo persone inviate dal Serd, il secondo è che deciderebbero anche la durata del soggiorno. Non sono ipocrita, quei soldi mi farebbero comodo e saprei anche come utilizzarli. Vorrei che cambiasse la legge, anche se è difficile: la tossicodipendenza è un argomento scivoloso, difficilmente le forze politiche troveranno un’intesa comune»

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