La Nuova Sardegna

ICube, il robot bambino che impara

di Monica De Murtas

Un misto di umanità e fantascienza illustrato ieri a Sassari dal suo “educatore” Angelo Cangelosi

23 marzo 2017
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SASSARI. Si chiama iCub ed è un bambino robot alto poco più di un metro con mani di metallo e occhi che guardano il mondo attraverso due telecamere. Icub ha microfoni per orecchie, uno speaker al posto della bocca e una sorta di pelle artificiale dotata di sensori di pressione di tipo capacitivo, simili a quelli dei ”touch screen” di smartphone e tablet.

Se gli viene chiesto di riconoscere un oggetto lo indica e se sbaglia si corregge fino a quando riesce, perché è progettato per imparare. Un misto di umanità e fantascienza come sintetizza il suo nome I viene da “I robot” (“Io, robot”) la trilogia di racconti di Isaac Asimov, “cub” significa cucciolo ed evoca il personaggio del “Libro della Giungla” di Rudyard Kipling.

E’ stato il suo babbo sardo, l’ingegnere robotico Giorgio Metta a battezzarlo con questo nome, il suo “padrino”, come lui stesso ama definirsi, è invece Angelo Cangelosi, psicologo ed esperto di intelligenza artificiale, direttore del centro di “Robotic and neural system” dell’Università di Plymouth. Cangelosi ha presentato nell’aula magna dell’Università un’avvincente lezione dal titolo “Dai bambini ai robot: l’apprendimento del linguaggio nella teoria embodied”. Per entrare nel vivo dell’argomento basta tradurre il termine embodied che significa letteralmente “radicato nel corpo”. «Icub è unico –dice Cangelosi – proprio perché ha embodied, radicata dentro di sè la combinazione tra capacità motorie, sensoriali e computazionali di cui è dotato ogni essere umano. La nostra ricerca si basa sul nuovo approccio interdisciplinare della robotica evolutiva. Nel corso dell’evoluzione umana l’intelligenza si è sviluppata grazie alla possibilità che il nostro corpo ci offriva di interagire con l’ambiente afferrando gli oggetti e manipolandoli, sentendone l’odore e riconoscendone la forma».

« Icub è in grado di imparare perché realizza il suo processo di apprendimento proprio come gli esseri umani – ha aggiunto –, partendo da zero e utilizzando le stesse risorse di un bambino. Esistono altri robot in grado di formulare frasi ma sono solo raffinati vocabolari, nessuno di questi è in grado di capire il significato delle parole. In una prima fase della loro evoluzione anche i bambini non sono in grado di conoscer i significati ma acquisiscono suoni, poi imparano a identificare ogni oggetto con il suo nome. Icub ora è nella fase evolutiva di un bimbo di due anni, sa dare un nome alle cose e distinguere un oggetto da un altro in base a colore e forma». Cangelosi ha mostrato al pubblico i risultati della ricerca in un filmato realizzato recentemente nell’università di Plymouth dove iCub è impegnato a distinguere tra loro vari oggetti. Stessa cosa sono invitati a fare alcuni bimbi di circa due anni. Robot e umano si comportano allo stesso modo osservano, manipolano, toccano palline e trenini di gomma e danno la loro risposta.

Anche l’aspetto del robot è parecchio simile a quello di un bimbo. «I grandi occhi di Icub – prosegue lo scienziato– sono stati creati perché l’uomo per comunicare ha necessità di creare un rapporto visivo attraverso lo sguardo. La mente del bambino robot è invece molto diversa dalla nostra è suddivisa in moduli, che si occupano di compiti specifici: riconoscere gli oggetti, estrarre l’informazione tattile e così via».

L’ambizioso obiettivo scientifico potrebbe portarci tra dieci anni ad avere dei robot domestici evoluti che possano aiutare anziani e bambini. Ma non è solo questo lo scopo degli studiosi: «Insegnare ad un robot ad apprendere –conclude Cangelosi – ripercorrere con lui le fasi della psicologia dello sviluppo ci porta ogni giorno a capire qualcosa di più su come siamo fatti e su come funziona il nostro cervello».

Non soltanto robotica, dunque, ma anche un nuovo modo per l’umanità di guardarsi allo specchio e conoscere meglio i meccanismi della mente. Come a suo tempo aveva immaginato il visionario Asimov che nelle “falle comportamentali” dei robot identificava le zone d’ombra dell’animo umano.

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