La Nuova Sardegna

“Fare luce”, la Sardegna nel film di Gianluca Vassallo

di Gianluca Vassallo
“Fare luce”, la Sardegna nel film di Gianluca Vassallo

Il Salone del mobile in corso in questi giorni a Milano è dedicato al tema della luce E la rivista “Inventario” commissiona un originale progetto visivo all’artista sardo

01 aprile 2017
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Il Salone del mobile in corso in questi giorni a Milano non è soltanto il più importante momento di mercato a livello globale per le aziende del design ma è anche un luogo di incredibile fermento per quanti operino nella produzione visiva, culturale e di senso, perché gli attori di questo evento mettono in atto una vera e propria sfida comunicativa centrata sui significati.

Foscarini, azienda italiana di riferimento nel panorama internazionale dell’illuminazione decorativa di design, spende molte energie alla ricerca di una dimensione intellettuale ed emotiva che anticipi e influenzi la sua progettualità, in continuità con la migliore tradizione del design industriale italiano. Prova ne è che «Inventario» – rivista fondata e promossa da Foscarini, diretta da Beppe Finessi ed edita da Corraini – oltre ad essere stata insignita del premio Compasso d’oro è diventata anche punto di riferimento dell’universo culturale che gravita attorno ai linguaggi del design, all’architettura e all’arte.

Capire e svelare. Quest’anno l’azienda veneziana ha deciso di affidare tre progetti culturali a tre sensibilità differenti: la cura di un libro all’esperto di design Beppe Finessi; un’installazione al confine tra la poetica dell’arte e quella dell’architettura a cura di Giovanni Maria Filindeu; un film, di cui sto per parlarvi, al sottoscritto. Tutto legato al tema di «Fare Luce». Il «fare», che sottintende azione, produzione, creazione, e la «luce» – concetto, punto di partenza e obiettivo del lavoro complessivo dell’azienda Foscarini – che diventano insieme «fare luce», con tutti i significati legati alla scoperta, all’indagine, alla volontà di capire e di svelare.

Frugare nella memoria. Il film «Fare luce» è stato girato a San Teodoro e in due delle comunità che l’estate scorsa ho incontrato in occasione della produzione della mostra «La città invisibile»: Bortigiadas e Nughedu San Nicoló. A monte, è stato necessario un lungo lavoro di scrittura che, per un film privo di dialoghi, parrebbe quasi paradossale. Ho dovuto attingere alle memorie d’infanzia, perché raccontare la luce significa riattivare, a coscienza matura, la relazione con le conseguenze della sua scoperta. Significa frugare lo stupore che ha formato, attraverso i gesti minuti e metodici della vita quotidiana, l’educazione alla sua influenza.

Le note che ho scritto, mentre le scrivevo, mi parevano un atto privato. Ma nulla può esserlo davvero quando un gesto intimo ha come scopo l’attivazione dello sguardo pubblico. Perché il cuore di un artista non è suo, ma del mondo. E del mondo devono essere le sue parole. Dunque, ecco le mie.

Una domenica. C’è una domenica nella vita di ciascuno di noi. Una, in particolare, nell’infanzia di tutti, in cui il sole ha sorpreso la polvere farsi strada in strisce di luce, così chiare da esistere ancora, anche adesso che abbiamo gli occhi adulti.

Nella mia, di domenica, c’erano gli esercizi di pianoforte, che anni dopo avrei fatto anch’io, arrivare dal settimo piano e l’assenza del tempo a regolare la gioia. Quattro caramelle contate nei giorni di festa e una di riserva, se di notte avessi avuto paura.

E c’era un corridoio lungo quattro stanze, una di fronte all’altra e in fondo, sulla destra, un balcone che era un inganno, che se soltanto giravi la testa, anziché incantarti nella vita altrui, potevi vedere il mare. E poi il caffè, se soltanto avessi saputo dare fuoco ai fornelli, che avrei voluto far trovare pronto ai miei al ritorno dalla messa. E lo specchio da diva di mia madre, quello da strega di mia sorella. Mio padre, invece, nessuno specchio mai, pur di evitarsi gli occhi, pur di non raccontarsi la fortuna.

Tv in bianco e nero. E ancora la tv, in bianco e nero, che era la fine degli anni Settanta, la stessa che a pranzo nei giorni diversi dalla domenica, coi riporti e le cravatte gonfie, contava i morti delle Brigate Rosse, i punti dell’inflazione, i colletti bianchi della Fiat, le tutte blu di Pomigliano. Ma la domenica scintillava tra un canale e l’altro sulle piastrelle di un verde quasi azzurro della cucina che avevamo allora, e io che la lasciavo accesa a friggere nel rumore statico pur di guardarla da fuori, dai vetri della porta, smerigliati in rombi, che sembrava un cinema a colori.

L’arrivo in Sardegna. Quando siamo arrivati in Sardegna, l’estate dopo quella domenica, ho visto l’alba per la prima volta, mentre il traghetto arrivava a Olbia. E ho creduto che fosse un benvenuto, una specie di regalo del sole per noi che lasciavamo tutto per andare a vivere nel mezzo del mare, l’ho creduto fino al primo giorno di scuola: sveglia alle sei per l’autobus delle 7.15, aprire la finestra sul rosso e chiedere: «Pa’, perché il sole ci dà di nuovo il benvenuto?», e lui “Lo fa ogni giorno, mentre dormi».

La foto di mia madre. E dall’autobus Arst, ogni giorno, una fermata ogni paese tra San Teodoro e Olbia, i bar con le insegne a intermittenza, i negozi appena aperti per le merende agli scolari, a mezza luce, che bisogna pur guadagnare.E tornato a casa c’era una finestra che dopo pranzo prendeva luce, una luce che si spostava piano e poco dopo, mentre facevo i compiti, illuminava una foto di mia madre da giovane, bella di gioia, come non l’ho vista mai, da quando ho memoria di lei. Si faceva sera quand’era tempo e io mi accorgevo del buio soltanto quando mio padre tornava dal lavoro e accendeva la luce dopo essersi liberato dalle chiavi, con un rumore nitido e sempre uguale, come se dalle mani cadesse il peso intero di possederle. Tutti i giorni. Tranne la domenica.

Gli occhi di un ragazzo. Nella mia, di domenica, in casa non c’era nessuno. O meglio, nessun altro che me e la luce. A costruire uno sguardo sulle cose o, più semplicemente, l’immaginario vivido su cui poggiare una storia, da raccontare oggi che sono adulto. Con gli stessi inguaribili occhi da ragazzo. E la luce toccarmi il cuore. Come ogni giorno. Da allora.

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