La Nuova Sardegna

Il commissario Longo: delitti e sorrisi amari

di Alessandro Marongiu
Il commissario Longo: delitti e sorrisi amari

In edicola “Lavoro ai fianchi” di Manconi e Lombardo-Radice

25 agosto 2017
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La sua figura, mirabilmente interpretata dal grande Peter Sellers, è ormai patrimonio dell’immaginario collettivo: con la sua imperizia, la sua inadeguatezza al ruolo, la sua disastrosa sbadatezza, l’ispettore Jacques Clouseau ha fatto ridere chiunque abbia visto anche uno solo dei film della Pantera Rosa dagli inizi degli anni Sessanta a oggi. Ebbene, con le dovute differenze, a qualcuno il protagonista di “Lavoro ai fianchi – Alcuni giorni nella vita del commissario Luigi Longo” di Marco Lombardo-Radice e Luigi Manconi, da oggi in edicola con La Nuova Sardegna per la collana “Maestri sardi del giallo”, per gran parte del romanzo potrebbe ricordare appunto Clouseau.

La nonchalance. Perché come lui, con nonchalance e con finta indifferenza, va avanti a dispetto di tutto (fino a un certo punto del romanzo, almeno), compreso ognuno dei marchiani errori che compie nel corso dell’indagine, di cui è titolare, per la scomparsa di Walter Reburdo, liceale romano uscito di casa una sera del marzo 1978 e più rientrato in seno alla famiglia. In certi passaggi fa anche ridere come Clouseau, Luigi Longo, ma meno, e soprattutto in maniera diversa – le somiglianze finiscono qui, infatti: perché il commissario sassarese che vive da tempo nella capitale fa ridere di quel riso che si spegne presto, lasciandoci in bocca solo uno sapore amaro, e sgradevole. Di sicuro, dell’investigatore francese non ha la fisicità slapstick: al contrario, è un tipo anonimo, che chissà da quanto non si prende cura di sé, che va in giro con una calza bucata e mangia alla bell’e meglio dei “medaglioni” mal cucinati nei bar. E va avanti, Luigi Longo, anche dopo aver fatto ciò che mai ci si aspetterebbe da un poliziotto, ovvero dopo aver rubato in questura, dalla montagna di denaro sequestrata a una banda criminale, quasi quattro milioni. L’occasione fa l’uomo ladro, si suol dire: e Longo, che pure solitamente è uno retto, coglie l’occasione nella forma di una busta piena di banconote da cento e da cinquantamila lire dimenticata sbadatamente su un carrello, lì, alla sua portata. Tre milioni e sette, più o meno la liquidazione che gli spetterebbe «dopo quaranta di onorato mestiere al servizio dello stato», cioè tra altri dodici anni. Non sa resistere, il commissario: afferra, nasconde ed esce di fretta dalla sua stanza. Da ultimo va avanti, Luigi Longo, anche quando la Storia gli si fa incontro fragorosamente: mentre si muove alla ricerca del giovane Reburdo, infatti, incrocia più di una volta i fatti, i luoghi e i responsabili del rapimento e della detenzione di Aldo Moro, ma neanche se ne accorge. E quando se ne accorge, si dice tra sé che può fare a meno di complicarsi la vita informando i colleghi: lascia passare e, appunto, va avanti. A commettere ulteriori errori e a prendere ulteriori abbagli, tanto sul lavoro quanto nella vita privata.

Romanzo attuale. Il personaggio e il romanzo cui Lombardo-Radice e Manconi diedero forma tra il 1979 e il 1980 (il libro uscì in una prima edizione per Mondadori nel 1980, per poi conoscerne una seconda per Il Maestrale nel 2010) sono a tutt’oggi del massimo interesse, per via delle mille sfaccettature che dopo quasi quattro decenni sanno ancora mostrare. Scriveva Manconi nel 2010 che la volontà sua e di Lombardo-Radice era stata di raccontare, con un linguaggio diverso da quello saggistico a cui erano abituati, la fine dei movimenti che si erano aggregati tra la seconda metà degli anni Sessanta e il 1977, una fine su cui pesava «come una mannaia il terrorismo». Il protagonista di “Lavoro ai fianchi” – «con quel nome allora così evocativo» (Luigi Longo, ultimo segretario del Pci prima di Enrico Berlinguer)» – esibisce lo smarrimento che al tempo apparteneva ai suoi autori, i quali si sentivano ridotti, al pari di tutti gli altri giovani militanti, a «comparse o a spettatori di un conflitto che si faceva scontro bellico al quale assistevamo senza poterci opporre e senza poterci sottrarre. Questo era il nostro sentimento e cercammo di rispecchiarlo in una figura che più lontana dalla nostra personale identità era difficile immaginare»: quella, appunto, di un poliziotto.

C’era, anche, l’ulteriore volontà di cercare una via d’uscita, nuove soluzioni: di qui la decisione di rivolgersi al «meccanismo narrativo del romanzo poliziesco, quasi che quella struttura investigativa potesse essere più pertinente e penetrante di qualunque altro strumento di indagine, compresi quelli del repertorio politico».

Noir antesignano. A tal proposito, sempre nel 2010 Goffredo Fofi individuava in “Lavoro ai fianchi” un «antesignano del noir dei nostri infelici e criminali anni Novanta del Novecento e anni Zero del Duemila», di quel noir cioè che non a caso ha avuto la sua matrice negli anni di piombo e nella strategia della tensione. Non un prototipo, continuava Fofi, ma «un ibrido, un apripista, un concentrato di modelli e tensioni», così affine al noir anche per «la bella deviazione su Sassari, che lega l’inchiesta al privato dell’inchiestatore e di cui serve a spiegare le radici e gli umori antropologici, sociali e culturali. Le due facce del commissario Luigi Longo – Sassari e Roma, la marginalità e la centralità, la provincia e la capitale, la piccola storia e la Storia».

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