La Nuova Sardegna

Mannuzzu: «Testamenti, il mio libro postumo»

di Costantino Cossu
Salvatore Mannuzzu
Salvatore Mannuzzu

In un volume i testi apparsi nella rubrica tenuta dallo scrittore per “Avvenire”

09 novembre 2017
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SASSARI. Tra il 2010 e il 2013 Salvatore Mannuzzu ha tenuto, sulla prima pagina di Avvenire, una rubrica quotidiana. Un diario, che ora viene raccolto in un libro edito insieme da Il Maestrale e dalle Edizioni dell’asino con il titolo “Testamenti” (175 pagine, 16,00 euro).

I testi, tutti molto brevi, sono divisi, nel volume che arriva oggi in libreria, in due sezioni. Nella prima, “Lettere a una monaca”, Mannuzzu ricorre alla finzione di una serie di lettere indirizzate a una donna, che oggi è un’anziana monaca benedettina e che l’autore ha conosciuto in gioventù da laica, negli anni Quaranta del Novecento: «Io allora – scrive Mannuzzu nel pezzo che apre il libro – ero un adolescente, dentro lo scenario delle guerra; lei una ragazza con qualche anno in più. E lei di recente ha riaperto quei lontanissimi, labili rapporti , dopo un’interruzione durata quasi quanto le nostre vite, scrivendomi che si ricorda di me; invece io non la ricordo: proprio non la ricordo. Dunque perché mi rivolgo a lei? Non lo so di preciso. Penso conti molto il nome di Madre, col quale la chiamo e che le spetta: invecchiando se ne ha sempre più bisogno – un disperato bisogno».

La seconda sezione del libro s’intitola invece “Altre procedure”. Sono testi in cui la riflessione su alcune grandi questioni del nostro tempo (mercificazione, globalizzazione, disuguaglianze crescenti, fallimento della politica), si intrecciano con una meditazione tutta privata, in cui la dimensione personale sfocia in un’interrogazione mai risolta sui temi eterni del dolore, del male, del rapporto con il divino. Due dei testi raccolti in “Testamenti” li anticipiamo in questa pagina.

Oggi Salvatore Mannuzzu ha 87 anni. Ed è un uomo provato. Nell’ottobre dello scorso anno è morta, per un male contro il quale nulla s’è potuto fare, Lidia, la figlia amatissima. Pochi mesi prima s’era spenta la moglie Nannetta. Il 17 settembre, mentre era in ospedale per visitare Lidia, ricoverata il 30 di agosto, per un banale incidente (le porte di un ascensore si sono chiuse all’improvviso) Salvatore Mannuzzu s’è fratturato un femore e un polso. Da quel giorno non ha più visto Lidia, non ha potuto partecipare neppure al funerale. Da quel giorno ad oggi – un anno e due mesi – non ha ancora lasciato l’ospedale: prima la riabilitazione, lunghissima dopo l’operazione al femore, e poi la complicazione di una polmonite.

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Ora che esce “Testamenti” – un titolo che ha scelto lui – sono andato a trovarlo nel reparto di pneumologia delle cliniche universitarie di Sassari. L’ho trovato rimpicciolito nel corpo, smagrito, barba e capelli lunghi, seduto su una sedia a rotelle. Quando l’ho visto mi è tornato in mente un passo di un’intervista contenuta, a corredo, in un libro che raccoglie come testo principale la lectio magistralis – intitolata “Giobbe, il dolore e il desiderio” – che Salvatore Mannuzzu pronunciò il 25 ottobre del 2004, quando l’Università di Sassari gli conferì la laurea ad honorem. Ilpasso dice: «Il mysterium iniquitatis, il mistero di tutto ciò che nel mondo è sofferenza nonostante Dio, è il tema che tuttora mi affascina e mi atterrisce».

Alla domanda: «Perché se esiste Dio esistono anche il male e il dolore, e perché questi colpiscono chi Dio lo ama con tutto se stesso?» – il tema biblico di Giobbe, appunto – Salvatore Manuzzu rispondeva mettendo in gioco l’idea di peccato, ma non nel senso di colpa; nel senso, invece, di irrimediabile incompiutezza dell’umano: «Peccato – diceva Mannuzzu – è mancanza di compimento, secondo la definizione di un grande teologo, Karl Barth. C’è una linea invalicabile (chiamiamola pure peccato originale) che separa ogni esistenza umana dalla pienezza, cui pure noi umani non cessiamo di tendere mossi dal desiderio. Così la nostra vita è, sempre, vita perduta. Poi però è obbligatorio che la perdiamo: guai a chi non la perde. La partita va giocata anche quando si sa che è in perdita».

Ho visto Salvatore Mannuzzu sulla sua sedia a rotelle come Giobbe sulla cenere. Anche lui, come il patriarca biblico, è stato chiamato a prove terribili. «Dopo la morte di Nannetta – racconta – Lidia viveva con me. Stavamo bene insieme, parlavamo, guardavamo la televisione. Era bello. La mia vita di vecchio aveva ritrovato calore. Poi... Poi, tutto s’è strappato. Stavo lavorando alla revisione dei testi delle mie rubriche per “Avvenire”. Pensavo di farne un libro, ne avevo parlato con Goffredo Fofi, che si occupa delle Edizioni dell’asino. Quando Lidia se n’è andata per sempre, ho lasciato il lavoro a metà, non l’ho più ripreso. Ecco perché considero “Testamenti” – lo dico un po’ per scherzo – un libro postumo: gli editori del Maestrale lo hanno voluto pubblicare anche se è incompiuto, proprio come si fa con gli scrittori morti».

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C’è in “Testamenti” l’impegno civile che ha segnato tutta la vita di Salvatore Mannuzzu. E c’è, più ancora, l’universo familiare e privato, lo sfondo di una città di provincia, Sassari, in cui si agita un’umanità piccola e smarrita, come in tutti i romanzi dell’autore di “Procedura e delle “Fate dell’inverno”. C’è la vita che è perdita, ma anche desiderio che alla perdita resiste. Come resiste Giobbe; come ho visto, in una stanzetta d’ospedale, resistere Salvatore Mannuzzu, che nella sua lectio del 2004 scriveva: «Io credo che questo rimanere al desiderio, pur essendogli sempre impari, rimanere all’altezza irraggiungibile del desiderio – del desiderio inappagato, mai pacificato – sia la vocazione più vera della vita e insieme della letteratura: la vocazione che forse le rende uguali; facendoci sperare che qualcosa si salvi dalla distruzione».


 

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