La Nuova Sardegna

Giovanni Floris: «Ecco perché la scuola può salvare l’Italia»

Giovanni Floris: «Ecco perché la scuola può salvare l’Italia»

È uscito per la casa editrice Solferino “Ultimo banco”, nuovo libro del giornalista tv: il ricordo nuorese

19 aprile 2018
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“Ultimo banco” è il titolo del nuovo libro del giornalista televisivo Giovanni Floris, in uscita oggi e dedicato al mondo della scuola. Libro che è anche il primo pubblicato dalla casa editrice Solferino. Per gentile concessione, pubblichiamo un capitolo nel quale l’autore fa un riferimento a un’insegnante incontrata Nuoro, città della quale è originaria la sua famiglia.

Iper-proteggiamo i figli, ma l’unica cosa da cui nessuno studente viene mai protetto è ciò che pensiamo di lui. Le nostre aspettative vengono rovesciate addosso ai ragazzi come tonnellate di mattoni. Si sommano ai giudizi che di loro danno i compagni, i coetanei, che a quell’età sono ancora più pesanti. Si sommano allo sguardo a volte severo, e a volte frettoloso, dei professori, e ai voti scolastici, che possono essere vissuti come un dramma. Tutto questo peso li schiaccia, e nel prossimo capitolo avremo modo di fare un esame di coscienza. La scuola si preoccupa che i ragazzini non percorrano da soli il tragitto fino a casa, ma il vero pericolo è prima, tra le mura della classe. Dove loro si convincono che il fallimento di oggi sia la condanna di domani.

Ricordo una professoressa a Nuoro che, prima di consegnare le borse di studio agli studenti che avevano vinto un concorso, volle consegnare gli attestati di mera partecipazione: «Sono la cosa più importante perché attestano che avete combattuto» disse agli alunni. «Che ci avete provato. Vi rendono diversi da chi non si è messo in gioco. Stavolta è andata male? La prossima andrà bene. Le premesse ci sono, perché avete deciso di combattere, e non vi siete tirati fuori.» Michael Jordan fu rifiutato dalla squadra di basket del liceo, perché non era stato considerato adatto. John Elder Robison, affetto da sindrome di Asperger, venne considerato un irrecuperabile per gran parte della propria vita scolastica fino a quando non scoprì la musica, e divenne ingegnere del suono a fianco di band come i Kiss o i Pink Floyd. Anna Wintour, la signora della moda mondiale, prima di diventare la più temuta e famosa direttrice di «Vogue» è stata una junior fashion editor licenziata dopo soli nove mesi da «Harper’s Bazaar». Notoriamente, la prima società fondata da Bill Gates fallì, Steve Jobs abbandonò gli studi e fu cacciato dalla compagnia che aveva fondato lui stesso. Il signor Honda fu scartato dalla Toyota, Walt Disney fu licenziato dal suo primo editore perché «mancava d’immaginazione». Charles Darwin scrisse di essere considerato, dal padre e dai compagni, di intelligenza inferiore alla media, mentre Henry Ford (quello della omonima casa automobilistica) fece fallimento per ben cinque volte prima di fondare l’impresa giusta. Carrie, il capolavoro di Stephen King, suo primo libro, venne rifiutato da trenta case editrici prima di essere pubblicato e, se non avesse insistito la moglie, il maestro dell’horror lo avrebbe lasciato dentro il cassetto in cui lo aveva abbandonato. La morale? Lasciamola alle parole di Michael Jordan: «Avrò segnato undici volte canestri vincenti sulla sirena, e altre diciassette volte a meno di dieci secondi alla fine, ma nella mia carriera ho sbagliato più di novemila tiri. Ho perso quasi trecento partite. Trentasei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Nella vita ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto». Attenzione, quindi, quando diciamo ai ragazzi che devono avere successo. Spesso i successi noi non li vediamo, o li cerchiamo nel posto sbagliato. Vogliamo afferrarli prima o dopo il loro tempo. Consideriamo giovani fenomeni quelli che si definiscono tali da soli e magari releghiamo nell’oscurità quelli che lo sono davvero, o lo diventeranno. Sempre che dall’oscurità riescano a uscire.

Ha fatto scalpore la ricerca di due neuroscienziati italiani che ha certificato come un adolescente su dieci in Italia sia globalmente insoddisfatto della propria vita. «Il pericolo è che le fragilità tipiche di questo delicato periodo di vita sfocino in veri e propri disturbi psichici» avverte la ricerca. «In Italia abbiamo circa 8 milioni e 200.000 giovani tra i dodici e i venticinque anni. Di questi circa il 10 per cento si dichiarano globalmente insoddisfatti della loro vita, delle loro relazioni amicali, famigliari e della loro salute. I dati epidemiologici nazionali e internazionali riscontrano tassi simili di ragazzi con manifestazioni depressive o sintomi d’ansia.»

Il 10 per cento: è tantissimo. Sono oltre 800.000 ragazzi italiani che, così giovani, ritengono di aver già perso la partita con la vita. Infatti, i dati della Società italiana di farmacia ospedaliera e dei servizi farmaceutici delle aziende sanitarie (Sifo) segnalano un aumento dei problemi psichiatrici tra gli adolescenti. Nel 2014, a livello nazionale, ci sono stati 9.924 ricoveri nella fascia tra i quattordici e i diciotto anni: una media annua di ventisette ricoveri al giorno. Colpa della scuola? No, di certo. O perlomeno non solo della scuola. Ma nella scuola e intorno alla scuola ho incontrato un sacco di vittime, e di carnefici, della sindrome dell’eccellenza. Il «devi fare del tuo meglio» è stato spesso sostituito dal «devi essere il migliore» ed è inutile dire che ci sono precise linee guida per esserlo, e che quasi nessuno è in grado di soddisfarle. Allora sei fuori. L’idea che la differenza sia accettabile solo se sinonimo di superiorità, l’idea che altrimenti vada curata, evitata se non eliminata, l’idea che la commistione sia tradimento di una purezza, e che la differenza vada tenuta lontana, se necessario, con la violenza, è un virus sociale epidemico che si diffonde nelle scuole perché dilaga anche fuori. La matrice del bullismo non la ritroviamo solo nelle scuole, la viviamo nella nostra quotidianità. La scuola però rimane, come sempre, il mondo dove cambiare le cose. Anche perché, se ti senti fuori dai giochi a dodici anni, demotivato a diciotto e stanco a venticinque, costruire una società migliore diventa complicato. E ci ritroviamo invece con un manipolo di autoproclamati fenomeni, e un esercito di autoproclamati perdenti.

 

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