La Nuova Sardegna

Parla l'oncologa sassarese killer dei tumori: «Che emozione far nascere un nuovo farmaco»

LIA PALOMBA
Parla l'oncologa sassarese killer dei tumori: «Che emozione far nascere un nuovo farmaco»

Il racconto in prima persona della studiosa sarda. Anni e anni dall'idea ai primi risultati che aprono la porta a una nuova terapia. I pazienti che si sottopongono agli studi clinici sono coraggiosi e ammirevoli

15 gennaio 2019
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Nell'autunno del 2015, accompagnata da alcuni colleghi, attraversai il metal detector di un anonimo palazzo nella periferia di Washington, dove si trova la Food and Drug Administration (Fda), l'ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici. Eravamo là per presentare e discutere i risultati di uno studio clinico che avevamo condotto per oltre 3 anni su 63 pazienti affetti da un raro tipo di linfoma, la macroglobulinemia di Waldenstrom (abbreviato WM). Il nuovo farmaco, amministrato per via orale, era una molecola sintetica che era stata selezionata in laboratorio per la sua capacità di bloccare una cascata di eventi molecolari che permettono alle cellule B del sistema immunitario - delle quali le cellule di WM fanno parte - di sopravvivere indefinitamente e replicarsi senza limiti. I risultati dello studio clinico controllato furono entusiasmanti. Pazienti che fino ad allora avevano ricevuto un regime di chemioterapia dopo l'altro, nel giro di 4 settimane cominciavano a stare meglio, e dopo 8 settimane i valori ematici dell'80% di quei pazienti risalivano vicini alla norma, permettendo loro di tornare a una vita normale. E per di più senza bisogno di chemioterapia e con pochissimi effetti collaterali. I colleghi dell'Fda ci interrogarono per ore, quasi un processo alla nostra integrità di investigatori e alla veridicità dei nostri dati. Ma andò bene, e nel gennaio del 2016 ibrutinib fu il primo farmaco mai approvato per il trattamento del WM. Il mio viaggio a Washington, tuttavia, non fu altro che il culmine di anni di ricerca, iniziati con una scoperta (la cascata di reazioni che mantiene in vita le cellule B), un'invenzione (una molecola che blocca la cascata), la conferma che la molecola funziona in provetta contro le cellule tumorali, e infine il cosiddetto studio clinico di fase 1, cioè quello in cui il nuovo farmaco veniva testato per la prima volta sui pazienti senza avere la sicurezza che gli effetti collaterali sarebbero stati accettabili e l'attività clinica così promettente come suggerivano i dati di laboratorio.

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I pazienti che si sottopongono a studi clinici di fase 1 sono tra le persone più ammirevoli sul pianeta. Sono persone che prendono una decisione a volte rischiosa, purtroppo spesso dettata dal fatto che le precedenti terapie hanno fallito. Coloro che prendono la decisione di partecipare a un programma di terapia sperimentale lo fanno con coraggio e tutti, indistintamente, spesso senza saperlo, contribuiscono in maniera determinante all’avanzamento della ricerca. Noi medici ricercatori ci sentiamo perennemente indebitati per quel loro contributo, anche se inconsapevole.

Il percorso. L’approvazione di un nuovo farmaco, dalla scoperta di un meccanismo cellulare fino alla distribuzione del prodotto, dura quasi un’eternità. Ad esempio, tra il 2010 e il 2014 sono stati approvati dall’Fda 138 nuovi farmaci. Il periodo occorso tra la scoperta della molecola fino all’approvazione da parte della Fda era in media 36 anni, di cui circa 20 necessari per la sperimentazione in laboratorio, e il resto per la sperimentazione e verifica sui pazienti. Ma qual è il percorso che conduce a un nuovo farmaco? Tutto comincia in un laboratorio in qualche parte del mondo. Immaginiamo che un giovane post-doc in quel laboratorio scopra che una molecola ha delle proprietà singolari che, ammettendo l’ipotesi sia corretta, potrebbero essere utili per la terapia di un determinato tipo di cancro. Il direttore del laboratorio chiede al giovane ricercatore di ripetere l’esperimento. E di ripeterlo ancora, magari sotto altre condizioni sperimentali. E poi di dimostrare che l’assenza della molecola conferma la sua necessità per quella particolare funzione. Il giovane post-doc potrebbe impiegare mesi per provare che la molecola è essenziale per la sopravvivenza di cellule tumorali ma non per quella di cellule normali. Il giovane potrebbe poi impiegare altri mesi per dimostrare al suo capo che se la funzione di tale molecola si potesse inibire, le cellule tumorali non avrebbero più modo di sopravvivere. Altri mesi potrebbero passare prima che il post-doc, con uno screening di migliaia di inibitori della molecola in questione, ne individui finalmente alcuni che sembrano essere particolarmente potenti e sembrano avere l’attività biologica desiderata. A questo punto della storia, però, saranno già passati tre anni e il giovane ricercatore scriverà la tesi per il suo dottorato e continuerà per la sua strada. Ma la ricerca, che a questo punto è molto promettente, deve continuare.

La sperimentazione. Una nuova studentessa si troverà a dover concludere il lavoro iniziato dal suo collega, e riuscirà infine a dimostrare, con esperimenti che dureranno un altro paio d’anni, che tra gli inibitori da lui selezionati uno sembra essere molto promettente perché sarà in grado di curare – curare! – gli animali di laboratorio. L’inibitore più potente, avendo proprietà curative sugli animali, potrebbe avere lo stesso effetto su pazienti con lo stesso tipo di tumore. È nato un potenziale farmaco! Si può dare il via alla sperimentazione clinica. Il capo festeggia in laboratorio con una bottiglia di spumante analcolico e qualche stuzzichino al formaggio e spera di avere finalmente contribuito al bene dell’umanità. Potenziali farmaci vengono identificati e selezionati dopo lunghissimi, costosissimi e a volte noiosissimi esperimenti. Studenti, post-docs e tecnici di laboratorio passano le giornate (e spesso le notti) a eseguire, confermare e riconfermare esperimenti e interpretarne i risultati. Molti di quegli esperimenti falliscono o producono risultati ininterpretabili. Chi è stato in un laboratorio dove si conduce ricerca traslazionale, cioè con l’intento di scoprire funzioni biologiche che possano diventare bersaglio di nuove terapie, sa di cosa parlo. È una vita di continui fallimenti e, raramente, qualche successo, come quello dell’ibrutinib descritto sopra. Ma l’euforia che si prova quando un esperimento finalmente produce risultati positivi è comparabile a quella di un atleta che vince una gara. Con la differenza che il risultato potrebbe condurre un po’ più vicini a una nuova cura, e quindi la soddisfazione è più grande e generalizzabile. Quello è il momento in cui si intuisce che si è aperta la porta di una potenziale nuova terapia. È un momento emozionante.

Le nuove tecnologie. Ho esordito dicendo che i tempi della ricerca durano quasi un’eternità. Fortunatamente però il progresso nel campo della ricerca medica avanza a grandi passi. Grazie a nuove tecnologie di laboratorio che consentono ai ricercatori di analizzare meccanismi cellulari molto più rapidamente che in passato, a test genetici che permettono di selezionare pazienti con una maggiore chance di rispondere a un determinato farmaco, e grazie anche a nuovi metodi statistici che permettono di bloccare sul nascere la sperimentazione su farmaci poco promettenti, il periodo tra scoperta e approvazione si sta riducendo, ed è una certezza che continuerà a ridursi in futuro. Magari allora i giovani ricercatori che hanno avuto un giorno un’idea brillante vedranno il prodotto della loro creatività e perseveranza tradotto in risultati clinici prima ancora di prendere un’altra strada.

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