La Nuova Sardegna

«Nel mio film le basi militari che uccidono»

di Fabio Canessa
«Nel mio film le basi militari che uccidono»

Mario Piredda alla Festa del cinema di Roma con “L’Agnello”, un’opera sui danni alla salute causati dai poligoni sardi

10 ottobre 2019
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SASSARI. Sarà presentato in anteprima in concorso ad “Alice nella Città”, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma, il 22 ottobre. “L’Agnello” è il lungometraggio d’esordio di Mario Piredda, talento sardo già autore di diversi corti molto apprezzati in Italia e non solo. Il film si presenta come un dramma familiare con al centro la diciassettenne Anita che vive con il padre Jacopo, malato di leucemia e bisognoso di un trapianto, vicino a una base militare. A produrlo la bolognese Articolture con Mat Productions, Rai Cinema, il contributo della Regione e il supporto di Fondazione Sardegna Film Commission e della Cineteca Sarda. Dopo una serie di corti, tra i quali “A casa mia” vincitore del David di Donatello nel 2017, è passato al lungometraggio.

Quali sono state le maggiori difficoltà nella realizzazione di questa opera prima?

«Il lavoro di scrittura, con Giovanni Galavotti, è stato lungo ed è continuato dopo lo scouting per gli attori e le location. Mi piace modellare la sceneggiatura in base ai luoghi scelti e agli interpreti trovati e qualcosina è stata riscritta anche durante le riprese. Arrivati sul set, devo dire, ero un po’ spaventato e il lavoro si è rivelato impegnativo sia dal punto di vista fisico sia da quello emotivo. Abbiamo iniziato a girare a febbraio e i primi giorni sono stati difficilissimi anche per il clima. Poi le cose sono migliorate e alla fine siamo riusciti a rispettare il piano di lavorazione».

Rispetto a un corto, si allunga ovviamente anche la vita sul set. Com’è andato il rapporto con la troupe?

«In gran parte è stata quella di “A casa mia”. Il corto era andato bene e ci tenevo a lavorare più o meno con le stesse persone, mi piace molto l’idea di questo percorso lavorativo comune. I film non si fanno da soli e puntare su quella squadra, composta quasi tutta da sardi, mi dava più sicurezza».

Anche gli interpreti sono sardi. Come ha scelto la giovane protagonista Nora Stassi?

«Ho cercato di formare un cast di attori professionisti, come Luciano Curreli e Piero Marcialis, e di interpreti alla prima esperienza, come Michele Atzori e appunto Nora Stassi che è una ragazza di Pula. Trovarla non è stato semplice. Sin dall’inizio per il ruolo di Anita avevo optato per un non attrice, volevo un volto nuovo. E insieme a Stella La Boccetta, responsabile del casting, abbiamo iniziato questo percorso di ricerca in Sardegna. Cercavo una ragazza che avesse un suo vissuto anche doloroso e che sapesse nasconderlo bene. E poi doveva essere ironica. Ho provinato tantissime ragazze fino a che Stella non mi ha chiamato dicendomi di aver forse trovato la persona giusta in un bar e mi ha mandato un suo video. A dire il vero il primo provino non è andato benissimo, ma poi parlando con lei ho capito che ero sulla strada giusta. Mi ha colpito per come si raccontava mischiando il comico e drammatico».

Che tipo di lavoro di preparazione ha svolto con lei prima di arrivare sul set?

«In realtà non mi piace lavorare molto con gli attori prima. C’è il rischio di caricarli troppo, che diventino meccanici e perdano di spontaneità. Nora doveva portare al personaggio di Anita qualcosa di suo. E lo ha fatto».

La ricerca delle location adatte alla storia è stata difficile?

«Ho girato in lungo e largo, fino a quando non mi hanno portato sul Supramonte di Urzulei che è diventata la location principale. Mi sono subito innamorato del posto, esteticamente è folgorante. Una zona brulla, con il cielo terso, le nuvole basse. Abbiamo girato anche a Cagliari, Marina di Tertenia e Siliqua».

Il film tocca anche il tema della salute in rapporto alle basi militari. Come si è documentato sull’argomento?

«Non è direttamente un film di denuncia, racconta una dramma familiare dal punto di vista di una adolescente. Per questo non è tanto un film su un territorio, ma ambientato in un territorio. Conoscevo comunque già il tema perché nel 2009 avevo girato un corto “Io sono qui” che toccava lo stesso argomento e mi ero documentato al tempo. Mi hanno aiutato poi il libro “Lo sa il vento” di Carlo Porcedda e Maddalena Brunetti e alcuni documentari, soprattutto “Materia oscura” di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti che visivamente è molto forte. Poi ho fatto anche alcune interviste, ricerche sul campo, ma non dovevo realizzare un documentario. L’approccio era per un film di fiction».

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