La Nuova Sardegna

IL PICCOLO GRANDE PRETE CHE CAMBIÒ LE CARCERI

IL PICCOLO GRANDE PRETE CHE CAMBIÒ LE CARCERI

Era un rumore cupo e lontano. Cadenzato, monotono. A Nuoro, tutti quelli che abitavano nelle basse case di via Roma, via Ferracciu e via Brofferio lo conoscevano molto bene. Lo si sentiva soprattutto...

02 novembre 2019
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Era un rumore cupo e lontano. Cadenzato, monotono. A Nuoro, tutti quelli che abitavano nelle basse case di via Roma, via Ferracciu e via Brofferio lo conoscevano molto bene. Lo si sentiva soprattutto nei giorni più freddi. Arrivava da dietro le mura grigie del vecchio carcere ottocentesco e, anche se nessuno lo diceva, tutti sapevano che quello era il rumore dell’inverno e della sofferenza. A produrlo erano infatti i detenuti che correvano in tondo nel cortile della prigione, come dei dannati in un infernale girone dantesco. Fino a sfinirsi. Perché quello era l’unico modo per scaldarsi in un luogo di pena che rappresentava un’offesa alla dignità dell’uomo.

Così, quando alla fine degli anni Sessanta, nelle campagne di “Sa Terra Mala” fu costruito il nuovo carcere, tutti in città pensarono che quell’opera in qualche modo avrebbe saldato un debito di dolore col passato, facendo riconciliare Nuoro con la civiltà. Il penitenziario di Badu ‘e carros era stato infatti progettato e costruito per essere un reclusorio modello, seguendo i criteri di umanizzazione e di socializzazione che ispiravano la tanto attesa riforma carceraria, che in quegli anni difficili si stava faticosamente costruendo in Parlamento. Era un modello architettonico moderno, innovativo, modellato sulle esigenze del rispetto del detenuto e, quindi, dell’uomo. Tanto che perfino uno dei più grandi urbanisti del mondo, Bruno Zevi, nel 1966 lo definì nella sua rivista “Architettura”, un “modello straordinario da seguire ed imitare”.

Ma la storia, a volte, riserva un’ironia crudele. E così, infatti, quel modello che avrebbe dovuto cancellare la vergognosa memoria della “Rotonda” di via Roma, si trasformò in pochi anni in un nuovo inferno. Diventò addirittura uno dei simboli degli anni dell’emergenza, quando molti diritti e libertà personali furono sospesi, in nome della sicurezza sociale. Badu ‘e carros diventò uno dei centri strategici nella geografia della lotta dello Stato contro l’eversione. Negli anni Settanta, infatti, cominciò la lunga stagione della paura, nata dai sogni violenti di una generazione che voleva cambiare il mondo con le armi. Allora nessuno lo poteva immaginare, ma quella guerra tra le istituzioni repubblicane e il terrorismo era alimentata, e forse addirittura ispirata, da oscure trame atlantiche che solo oggi stanno emergendo, grazie al lavoro degli storici e delle commissioni parlamentari d’inchiesta.

Il massimo stratega dello Stato in questa guerra contro un nemico invisibile e sfuggente era il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Due erano i cardini sui quali il generale aveva impostato la propria azione: infiltrare i suoi uomini nella complessa e turbolenta galassia della sinistra extraparlamentare per arrivare fino al cuore delle Br e avere il controllo assoluto dei penitenziari. Con il decreto ministeriale del 4 marzo 1977, che istituiva nella casa circondariale nuorese un braccio speciale, Badu ‘e carros diventò così un carcere di massima sicurezza. Fu una sorta di colpo di mano: nessuna autorità locale, politica o giudiziaria, era stata consultata o semplicemente informata.

La magistratura nuorese manifestò apertamente il proprio dissenso. Le alchimie estreme che si potevano formare con la convivenza dei detenuti comuni e dei detenuti politici erano infatti considerate potenzialmente distruttive. Il procuratore della Repubblica Francesco Marcello lo disse esplicitamente nel convegno organizzato dalla Provincia subito dopo la rivolta avvenuta a Badu ‘e carros alla fine del 1980. La ribellione era stata guidata dai brigatisti Valerio Morucci, Alberto Franceschini, Mario Rossi e Roberto Ognibene. All’origine della clamorosa protesta, il rifiuto da parte dell’amministrazione penitenziaria di trasferire una cinquantina di detenuti, per avvicinarli alle loro famiglie. Approfittando di quelle ore confuse di rabbia e di tensione, all’interno del carcere si consumò un feroce regolamento di conti tra gruppi criminali e furono assassinati i camorristi Biagio Iaquinta e Francesco Zarrillo.

Lo Stato sembrò allora cedere e molti detenuti “politici” furono trasferiti. In realtà si trattò di un espediente, quasi di un inganno, per ristrutturare il braccio speciale e renderlo ancora più sicuro, più blindato. Dopo pochi mesi, i detenuti condannati per terrorismo furono tutti riportati a Nuoro. E con loro questa volta arrivarono anche molti “pezzi da 90” della criminalità. Badu ‘e carros non era più «un braciere acceso», come aveva denunciato il procuratore Francesco Marcello, ma una polveriera pronta ad esplodere.

In quel clima rovente il cappellano don Farris si arrese e rassegnò le dimissioni al vescovo. Monsignor Giovanni Melis era un uomo di straordinario vigore. Da anni era in prima linea contro la violenza. Le sue armi erano la parola e la speranza, il suo campo di battaglia era la Barbagia, insanguinata dalle faide e dai regolamenti di conti, e umiliata e ferita dalla maledizione del sequestro di persona. Davanti alle bare dei morti ammazzati il vescovo non lanciava anatemi e non si perdeva in duri sermoni, ma seminava parole di pace e di riconciliazione. Testardo. Instancabile. Era il simbolo di una Chiesa che era capace di vivere dentro la società barbaricina e le sue contraddizioni, e che non si stancava di lottare per arginare il vento dell’odio e le tempeste del sangue.

Ebbene, con le dimissioni di don Farris, monsignor Melis si trovò ad affrontare un problema molto spinoso. Nel clero nuorese, infatti, tutti avevano paura di calarsi in quell’abisso di dolore e di paura che era allora Badu ‘e carros. Poi seppe che in curia c’era un prete che aveva detto di non aver timore di affrontare quella sfida. Allora lo convocò per affidargli il ruolo di cappellano del carcere. Quel sacerdote era don Salvatore Bussu. Monsignor Melis in quel momento non poteva immaginare che, con quella scelta, avrebbe cambiato la storia carceraria italiana.

Salvatore Bussu era barbaricino di Ollolai. Uomo acuto e complesso, era un prete con la passione del giornalismo. Ma forse – come disse un suo amico – era un giornalista con la passione per il Vangelo e per i più deboli. Dirigeva il settimanale diocesano “l’Ortobene” che aveva trasformato in uno spazio prezioso per il dibattito politico e per l’analisi dei problemi sociali del centro Sardegna. Don Bussu era basso di statura, apparentemente fragile, con due occhi che le spesse lenti degli occhiali facevano sembrare enormi e quasi stupiti. Ma dietro questa apparenza dimessa e mite c’era invece un uomo con una tempra d’acciaio che portava avanti le sue scelte di coerenza con incredibile tenacia.

A Badu ‘e carros entrò con discrezione, quasi in punta di piedi, il primo febbraio del 1981. Due giorni dopo, la prima messa per i detenuti “comuni”, i soli che potevano parteciparvi. Cominciò l’omelia con un brano della lettera di San Paolo agli ebrei: «Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere…».

Il rapporto con i detenuti “politici” era invece inesistente. Loro ignoravano quel piccolo prete che cercava un dialogo con loro. E don Bussu rispettò quell’atteggiamento freddo, ma non ostile. Ma non si rassegnava a quel vuoto di parole, a quella impossibilità di confronto. E allora il 4 febbraio 1982 scrisse loro una lettera dove, tra l’altro, diceva:

‘‘

Non sono un uomo

del potere, ma soltanto

un amico e sacerdote di quel Gesù che è venuto al mondo a portare il lieto annuncio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi”.

I brigatisti rossi non risposero, ma le parole di don Bussu provocarono al loro interno una discussione molto sofferta. E così, quando il cappellano del carcere chiese il 26 febbraio un incontro con uno dei leader delle Br, Mario Moretti, questi si presentò all’incontro. Così lo descrisse don Bussu: “Fisicamente non è un granché: stortignaccolo, con un viso triste come i suoi baffoni alla Stalin. Ma subito hai la sensazione di trovarti davanti a un uomo estremamente intelligente, razionale, duro”. Moretti era il terrorista considerato regista del sequestro-omicidio del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. Il brigatista chiese al cappellano se sapesse per quanto tempo ancora sarebbero state applicate nei loro confronti le restrizioni previste dall’articolo 90 della legge penitenziaria del 1975.

Ma don Bussu non poteva saperlo. Allora Moretti gli disse: “Se così ci vogliono fare morire, preferiamo morire a modo nostro”. Era un messaggio criptico, nel quale si intuiva una terribile minaccia.

L’articolo 90, come disse don Bussu, “consentiva di chiudere ermeticamente il carcere, rimuovendo il detenuto dalla coscienza dei cittadini”. In concreto, si traduceva nell’isolamento più completo del recluso, nell’impossibilità di ricevere pacchi dall’esterno, nei vetri divisori nei colloqui con i familiari e gli avvocati e nella riduzione delle ore d’aria al minimo. Una norma che veniva applicata con la massima discrezionalità del ministero di Grazia e Giustizia, quando ricorrevano “gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza”. Per il ministero a Badu ‘e carros quelle condizioni di eccezionalità duravano da ben due anni. Erano cioè diventate la normalità. Le condizioni di vita imposte erano tanto dure che gli stessi tecnici del ministero chiamavano le sezioni speciali “i braccetti della morte”.

Intanto la lettera con la quale don Salvatore Bussu aveva chiesto un dialogo con i terroristi non era piaciuta agli alti papaveri dell’amministrazione penitenziaria. Soprattutto il passaggio nel quale il cappellano aveva detto di non essere “un uomo del potere”. Così il debole filo che esisteva tra il prete e i terroristi fu reciso e per un anno e mezzo don Bussu non potè avere alcun contatto con i detenuti ‘politici’.

Poi, nel novembre del 1983, il convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane provocò un sisma morale e politico. Alla chiusura dei lavori, papa Giovanni Paolo II disse infatti: “L’uomo conserva integra la sua dignità di persona, che per natura sua è inalienabile, anche in stato di colpevolezza. Le restrizioni delle libertà personali trovano in quella dignità un limite invalicabile”.

L’onda lunga del terremoto provocato dalle parole del Papa arrivò fino a Nuoro. Fin dentro il carcere di Badu ‘e carros. Alberto Franceschini, fondatore delle Br insieme a Renato Curcio, e Franco Bonisoli chiesero di incontrare don Bussu, che era appena tornato dal convegno nazionale dei cappellani. Da dietro il vetro divisorio Franceschini disse parole gravi e sofferte:

‘‘

In questa stagione

la Chiesa è l’unica a fare

discorsi di pace».

Due settimane dopo, don Bussu ricevette dal direttore del carcere le richieste di colloquio non solo dei brigatisti Franceschini e Bonisoli, ma anche di Roberto Ognibene, Luca Nicolotti, Massimo Gidoni, Rocco Micaletto, Claudio Pavese e Nicola Pellecchia. Dopo aver detto al cappellano che alcuni di loro avevano iniziato lo sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione, consegnarono una lunga lettera nella quale spiegavano le ragioni della loro scelta. Tra le altre cose si leggeva: “… ci sottraggono ogni giorno gocce di vita, distruggendo scientificamente non solo ogni nostro rapporto sociale, ma anche ogni possibilità di ricostruirlo, con l’ambizione infine di distruggerci anche la speranza”.

I brigatisti rossi ormai vedevano quel piccolo prete come l’unico legame possibile con il mondo esterno, l’unica possibilità di avere una voce. Don Bussu li supplicò di desistere dal loro progetto che li avrebbe potuti portare fino alla morte.

La protesta dei brigatisti continuava nel più completo silenzio. Perché nulla filtrava dal bunker grigio alla periferia di Nuoro. Erano in sette ad alimentarsi solo con una tazza di latte zuccherato al giorno. Alla vigilia di Natale cinque detenuti cominciarono lo sciopero totale. Disperato, don Bussu chiese al vescovo di intervenire, di convincerli a desistere dalla loro azione. E monsignor Melis andò a Badu ‘e carros, dove ebbe un lungo colloquio con Franceschini. Ma il brigatista fu irremovibile: “Andiamo avanti, fino alla fine”.

Monsignor Melis, per sottolineare il dissenso della Chiesa rispetto all’atteggiamento disumano del ministero, si rifiutò di celebrare la messa in carcere, affidando questo compito proprio a don Bussu. Cioè al prete che si batteva per riportare umanità tra le mura grigie di Badu ‘e carros.

Il pomeriggio di Natale fu per don Bussu un pomeriggio di angoscia. Alla fine prese la decisione: interrompere il suo servizio di cappellano fino a quando non fossero cambiate le condizioni di vita anche nel braccio speciale del carcere. Era il suo regalo di Natale per i digiunatori. Donava loro il suo dolore, la sua solidarietà di uomo e il suo spirito evangelico di prete.

Scrisse una lettera al vescovo nella quale spiegava le sue ragioni e raccontava la sua sofferenza. Una copia fu consegnata al direttore del carcere, una ai brigatisti che facevano lo sciopero della fame e una all’Ansa. Per rompere il muro di silenzio. “Sperando che i sette detenuti si ricredano e riprendano a nutrirsi – si legge nella lettera –, la prego di voler capire il mio atteggiamento che non è di disobbedienza nei suoi riguardi, ma di rispetto alla coscienza di sacerdote che si ribella ad ogni forma di violenza. Perché se da una parte c’è stato un terrorismo delle Brigate Rosse – e lei sa quanto l’ho sempre condannato nel nostro settimanale che dirigo – dall’altra parte, oggi, per reazione c’è purtroppo un terrorismo di Stato meno appariscente e più ‘scientifico’, ma non per questo meno condannabile”.

La lettera di don Bussu deflagrò sulle pagine di tutti i giornali e nelle televisioni, creando una bufera politica. Il ministro democristiano Mino Martinazzoli fu costretto a revocare l’applicazione dell’articolo 90 a Badu ‘e carros e ad attenuare le restrizioni per i detenuti ‘politici’.

Fu l’inizio di un lungo cammino di conciliazione, che portò il Paese fuori dagli ‘anni di piombo’ e consentì la riforma carceraria proposta dal senatore Mario Gozzini.

Tutto questo forse non sarebbe accaduto senza un piccolo prete nuorese con due occhi che le spesse lenti degli occhiali facevano sembrare enormi.



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