La Nuova Sardegna

Nella cultura europea le radici della scrittura di Grazia Deledda

di ALDO MARIA MORACE

Da oggi in edicola per la collana “Storia di Sardegna” la biografia dell’autrice Premio Nobel per la letteratura

15 novembre 2019
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È ormai entrata nella classicità, Grazia Deledda, non soltanto per la gloria ― del Premio Nobel. Fino a non molti anni fa sottovalutata anche nella sua isola, entrata per lungo tempo nel cono d’ombra da parte della critica, è oggi radicata a pieno titolo nel canone novecentesco fra i più grandi scrittori del secolo scorso, con punte di ammirata valutazione che vedono in lei la più grande narratrice italiana di tutti i tempi. E non a caso il Ministero dei beni culturali ha decretato nell’ottobre del 2015 l’istituzione dell’ “Edizione nazionale di Grazia Deledda”, con il mandato alla commissione che presiedo di pubblicare in modo filologicamente rigoroso l’intera sua opera, dai romanzi alle raccolte di novelle, dalle poesie ai testi teatrali, dalla saggistica all’epistolario.

ITINERARIO CREATIVO. L’“Edizione nazionale” (di cui è uscito da poco per i tipi di Rubbettino il primo volume: “L’edera”, curato in modo esemplare da Dino Manca) suggella la grandezza della scrittrice nuorese e, al tempo stesso, vuole ripercorrere sistematicamente il suo itinerario creativo, ripensandolo e approfondendolo come mai era stato fatto prima e, anche, demolendo vecchi e usurati modi di lettura. Con essa la Deledda, insomma, passa definitivamente dalla cronaca letteraria alla Storia; e l’edizione digitale, che accompagnerà e integrerà quella cartacea, renderà possibile ai lettori, ― specialisti e non, ― di entrare nell’universo deleddiano, come anche potranno fare gli studenti, che fruiranno di un ricco percorso didattico e documentario, pensato per loro; e tutti potranno, così, approcciarne la straordinaria modernità, in cui si fondono splendidamente il microcosmo nuorese e la realtà contemporanea del macrocosmo, dando vita a una Sardegna che ― come poi sarà per Salvatore Satta ― diviene metafora e chiave di lettura del mondo.

SOLITUDINI IMMANI. Nella fase che va dal 1888 al 1900 la Deledda si prova in una serie di sperimentazioni diverse e, al tempo stesso, di tentativi dispersivi. Ma un tracciato evolutivo è ben percepibile: la scrittrice scopre la tensione narrativa che è insita nelle solitudini immani del paesaggio, dove i silenzi umani rendono vibratili le voci della natura; e poi scopre la tecnica del sottinteso, del personaggio, delle vicende che prendono corpo dal ritmo del dialogo e, soprattutto, l’immissione non esotica degli elementi antropologici (“Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna” è del 1894).

VOLONTÀ FERREA. Si apre, dopo, una fase di ripensamento evolutivo. La scrittrice si sta creando da sé, con volontà determinatissima, in una dimensione febbrile di acquisizioni culturali. Il carteggio di quegli anni ci consegna il turgore di una personalità ferreamente protesa a sconfiggere le pesantissime penalizzazioni derivanti dalla sua condizione di donna, di insularità, di relegazione provinciale. La Deledda avverte l’oppressione soffocante del cerchio montuoso che circoscrive il suo universo paesano e l’attrazione impetuosa della vita moderna che pulsa – sconosciuta, intuita, sognata – al di là di esso.

TERRE INESPLORATE. Ma ora che l’apprendistato si è compiuto, è giunto il momento di dar corpo a un vasto e ambizioso disegno, che solo lei sente di poter realizzare nell’isola e che è costituito dalla fondazione del moderno romanzo sardo, in grado di incidersi nell’immaginario dei lettori europei attraverso la fascinazione – non più esotica ma antropologica – di usi, costumi e tradizioni di un mondo rimasto sino ad allora narrativamente inesplorato ed inedito, nella straordinaria ricchezza delle sue stratificazioni ancestrali e storico-culturali e nella drammaticità dei suoi paesaggi, aperti su quadri panoramatici di rocce e boschi e aridità di sconfinata solitudine.

CICLO ROMANZESCO. Si trattava di far aderire alla novità del narrato il tessuto linguistico e stilistico; e si trattava soprattutto di dar vita a un ampio ciclo romanzesco che delineasse classi e tipologie sociali del mondo sardo attraverso la coesistenza e il conflitto tra ossequio e infrazione delle regole ancestrali, nell’infiltrarsi di nuove inquietudini e sensibilità, sullo sfondo della profondità dell’anima e del male, del peccato e dell’espiazione, scoperta attraverso la lettura dei narratori russi, in particolare di Tolstoj e di Dostoevskij.

LA RIPARTENZA. La ripartenza avviene con “La via del male” (1896): il romanzo presenta già le linee portanti della Deledda “maggiore”, qui giunte ad un esito espressivo di grande rilievo. L’interazione tra interiorità e natura e la lettura etnologica del microcosmo paesano pervengono qui a una tessitura simbolica che trasfigura il tempo e il destino nel riprodursi fatale della solitudine, della sofferenza e dell’infelicità umane; e, lungo questo vettore, nascono gli indimenticabili capolavori della narrativa deleddiana: da “Elias Portolu” (1903) a “Cenere” (1904), da “L’edera” (1910) a “Canne al vento” (1913).

NOTE DECADENTI. Ma accanto a questi esiti – ― i più conosciuti, giustamente i più letti e ammirati ―– esiste un’altra e non minore Deledda, quella che esprime la scontentezza annoiata delle “anime stanche” che le suggestioni decadenti hanno marchiato e rese diverse, per una infelicità malata che la scrittrice proietta e riflette negli oggetti e nella natura (come avviene, ad esempio, allo Stefano Arca di “La giustizia”); o la Deledda che in “Dopo il divorzio” (1902) mostra con tensione civile cosa possa accadere in un mondo arcaico, quale è quello sardo, quando la caduta della indissolubilità matrimoniale giunge a incrinarne i ritmi plurisecolari, facendo sì che la donna possa riappropriarsi del proprio destino.

OSSESSIONE EDIPICA. E c’è, infine e soprattutto, la Deledda di “Il segreto dell’uomo solitario” (1921), improntato a una volontà di rinnovamento che investe scrittura e struttura narrativa e costruito sulla trama psicoanalitica di un’ossessione edipica: nuovo splendido esempio del deleddiano “narrare visivo”, che orchestra gli elementi di un paesaggio marino in un addensarsi di vibrazioni simboliche che accompagnano l’incontro insperato fra le solitudini umane. La memoria riflessa nell’acqua di un pozzo – con l’angoscia che promana dalla sua labilità dolorosa – è un elemento caro al grande decadentismo europeo, da Baudelaire a Verlaine, da Montale a D’Annunzio; e “Il segreto” si nutre, al tempo stesso, di suggestioni della psicologia del profondo che vanno da Charcot a Freud, da Jung a Nietzsche («la coscienza, negli alienati, non si spegne: è viva, e vigile, e vede forse più che la coscienza nostra di sani»). “La coscienza di Zeno”, di Italo Svevo, viene pubblicata due anni più tardi, nel 1923.



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