La Nuova Sardegna

Giovanni Spano, il colto canonico che raccontò l’isola

di Salvatore Tola
Giovanni Spano, il colto canonico che raccontò l’isola

La vita di uomo semplice dedicata allo studio della sua terra. Da venerdì in edicola per la collana “Storia di Sardegna” la biografia dello studioso di Ploaghe curata da Antonio Maccioni

27 novembre 2019
5 MINUTI DI LETTURA





Quando si prova a dare un quadro sintetico della personalità di Giovanni Spano ci si trova di fronte all’impresa di concentrare la molteplicità degli interessi, delle attività, degli incarichi ricoperti, dei libri pubblicati. Per fortuna ci viene incontro lui stesso con la sua autobiografia, “Iniziazione ai miei studi”, che pubblicò a puntate, nell’ultimo periodo della vita, sulla rivista sassarese “La Stella di Sardegna” di Enrico Costa. Nella quale si mostra in tutta l’immediatezza, la semplicità e anche l’ingenuità di cui soltanto un uomo veramente grande può essere capace. A partire dagli anni dell’infanzia, trascorsi nella sua famiglia di piccoli proprietari, a Ploaghe, quando già precorreva il suo futuro di studioso: al vedere gli esattori all’opera cercava di imitarli provando a scrivere con una penna di gallina che trovava sulla strada.

[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:site:1.38022543:gele.Finegil.Image2014v1:https://www.lanuovasardegna.it/image/contentid/policy:1.38022543:1653495763/image/image.jpg?f=detail_558&h=720&w=1280&$p$f$h$w=d5eb06a]]

Poi, quando i suoi decisero di farlo studiare, il fratello maggiore lo «accavalciò sopra un ronzino» (racconta nel suo italiano particolare, molto criticato ma poi da alcuni anche apprezzato), e «dopo quattro ore di viaggio» poté entrare «tutto maravigliato ed in estasi nella bella Sassari».

[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:tempo-libero:1.38022681:Video:https://video.lanuovasardegna.it/locale/grandi-personaggi-in-edicola-la-biografia-di-giovanni-spano/117311/117792]]

Nella babele linguistica. Seguono le pagine nelle quali rievoca i metodi d’insegnamento del tempo, e lamenta la babele linguistica in cui venne a trovarsi: cresciuto a pane e sardo-logudorese, si trovava a disagio sia nella vita di ogni giorno, perché non capiva il sassarese, che a scuola, perché da quella base doveva saltare a piè pari dentro l’italiano e il latino. Riuscì comunque a «ingranare» negli studi, grazie alle capacità che dimostrava nella poesia, e pur con qualche incidente di percorso riuscì ad arrivare ai gradi più alti; e, dopo un periodo trascorso a Roma, divenne professore di Sacra Scrittura nell’Università di Cagliari; dove, approfittando anche delle lunghissime vacanze, riusciva a dedicarsi ai suoi studi, concentrati sulla linguistica e l’archeologia ma estesi anche ad altri campi. Nel raccontare questa prodigiosa progressione non arriva mai a vantarsi, si limita a riferire in termini obiettivi i vari traguardi raggiunti. Ma era orgoglioso del ritmo intenso che aveva sostenuto nell’applicazione: era arrivato a punte massime di quindici ore di lavoro in un giorno, e non era mai sceso al di sotto delle otto. Per il resto trascorre spesso nell’autoironia. Come quando racconta che, sbarcando in Africa nel corso di uno dei suoi viaggi, si era ricordato che trovandosi in quella sua stessa situazione Giulio Cesare era caduto e, stringendo un pugno di sabbia, aveva esclamato: «Finalmente ti ho afferrato!»; «Io, volendo fare altrettanto», prosegue nel racconto, «mi cadde il cappello in mare e dovetti dare qualche moneta ad un forzato arabo per trarmelo dall’acqua».

La sua modestia non era un atteggiamento di facciata, si manifestava anche nell’attenzione per i risultati conseguiti da altri studiosi più esperti e da istituzioni più avanzate di quelle isolane. Appena arrivato a Cagliari, ad esempio, iniziò a frequentare Vincenzo Porru, che considerava un maestro di linguistica perché autore di un vocabolario e di una grammatica del sardo-campidanese: «Il padre della lingua vernacola… che aveva lavorato 25 anni sul dialetto meridionale». Più tardi, quando fu nominato direttore della Biblioteca Universitaria, andò subito a fare un giro delle biblioteche del Continente, per istruirsi sui metodi di catalogazione e sistemazione dei libri; e quando divenne preside del Convitto nazionale si affrettò a documentarsi su come venivano gestiti i migliori della penisola. Intanto manteneva uno stile di vita semplice, essenziale; e le sue ricerche lo tenevano a contatto con persone di ogni livello sociale, anche le più umili, tra le quali numerosi i parroci dei piccoli villaggi. Nel corso di una delle sue peregrinazioni per l’isola fu ospite del poeta Diego Mele, che era stato suo compagno di studi a Sassari ed era parroco di Olzai.

[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:site:1.38022545:gele.Finegil.Image2014v1:https://www.lanuovasardegna.it/image/contentid/policy:1.38022545:1653495763/image/image.jpg?f=detail_558&h=720&w=1280&$p$f$h$w=d5eb06a]]

In giro per l’isola. Ma racconta anche di un incidente che aveva avuto qualche giorno prima: era entrato nell’officina di un fabbro, a Orgosolo, per farsi dire i nomi che venivano dati sul luogo ai principali attrezzi; ma il padrone lo aveva preso per un esattore delle tasse e, afferrata una mazza, lo aveva costretto a fuggire minacciandolo: «Uscite presto di bottega, altrimenti vi stramazzerò qui stesso». La semplicità dei modi sconfinava in lui, a volte, nell’ingenuità, specie quando si trovava di fronte a prodigi della modernità. Nel campo dei trasporti, ad esempio: dopo aver raccontato quel suo primo viaggio a Sassari col fratello commenta: «Ora colla ferrovia vi si arriva in un’ora circa»; poi, rievocando un viaggio da Roma a Torino fatto nel 1834, scrive che gli era costato «15 giorni di pellegrinazione, mentre ora vi si va in 12 ore circa». Ciò non toglie che egli sapesse prendere apertamente posizione, se lo riteneva giusto. Come quando approfittò di una visita di re Carlo Alberto alla Biblioteca Universitaria per lamentare che la pioggia che filtrava dal tetto stava rovinando i libri. Così ottenne che iniziassero subito i lavori di riparazione, ma si attirò l’avversione dei superiori («Ai sovrani ordinariamente non si fa mai vedere il marcio delle cose») che qualche tempo dopo, visto anche che era troppo «distratto in far grammatiche e in altre opere vernacole», lo esonerarono dalla Biblioteca e poi anche dalla cattedra.

Lingua e archeologia. Ecco, una volta presa così confidenza, ridotte le distanze dal personaggio, viene più agevole parlare degli studi che ha fatto e almeno delle principali opere che ha pubblicato. I «filoni» fondamentali sono due, abbiamo detto. Nel campo della linguistica sarda ci ha lasciato un vocabolario e una grammatica che sono stati utilizzati a lungo e che presentano ancora, specie la seconda, un certo interesse; da qui ha sconfinato nella letteratura riportando in vari volumi le poesie – in logudorese e in sassarese – che aveva raccolto per studiare la lingua.

Nel campo dell’archeologia è impossibile affrontare qui l’elenco degli scavi affrontati, dei reperti studiati: i testi di riferimento sono la rivista “Bullettino Archeologico Sardo”, che fece uscire per dieci anni, e altre numerose pubblicazioni. Ma si occupò anche di storia e di storia dell’arte, di numismatica, scrisse biografie e curò e tradusse libri di altri: dal repertorio di Raffaele Ciasca risulta che sono più di 400 – tra articoli e libri – le opere che ci ha lasciato.

In Primo Piano
Verso il voto

Gianfranco Ganau: sosterrò la candidatura di Giuseppe Mascia a sindaco di Sassari

Le nostre iniziative