La Nuova Sardegna

Intervista a Verdone: "Io, Fellini e Volontè: una vita un sacco bella"

di FABIO CANESSA
Intervista a Verdone: "Io, Fellini e Volontè: una vita un sacco bella"

L'attore riceverà a Cagliari il Premio alla carriera a 40 anni dall'esordio

08 dicembre 2019
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Fine degli anni Settanta: un giovane comico romano, agli esordi in televisione, presenta a “Non stop” un personaggio sardo che elenca in rigoroso ordine alfabetico i nomi dei paesi dell’isola. Quarant’anni dopo Carlo Verdone arriva in Sardegna per ritirare il Premio alla carriera: l’appuntamento è per sabato 14 dicembre alle 19 nella sala congressi del THotel a Cagliari (ingresso libero fino a esaurimento posti).

«Sono felicissimo di questo riconoscimento – racconta Verdone raggiunto telefonicamente – e di tornare in Sardegna. In passato sono stato a Tavolara, in Costa Smeralda, a Capo Spartivento, ma vorrei conoscere meglio la vostra meravigliosa isola. Anche perché con i sardi che ho conosciuto mi sono sempre trovato benissimo». La serata si aprirà con il concerto omaggio per piano solo di Romeo Scaccia. Poi la premiazione e infine l’incontro dell’attore e regista con il pubblico, coordinato da Alessandro Macis, presidente e direttore artistico dell’associazione L’Alambicco, e dal critico cinematografico Mario Patané. Una serata che arriverà a conclusione della ricca retrospettiva su Verdone organizzata dall’Alambicco con il sostegno della Regione.

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Come è nato il personaggio sardo di “Non stop”?

«Nel palazzo dove abitavano i miei genitori, di cui ho scritto nel libro “La casa sopra i portici”, i custodi erano tutti sardi e venivano da diversi luoghi dell’isola. Così pensai poteva essere divertente un personaggio sardo che a un certo punto faceva un elenco, in modo veloce, di cittadine e paesi della Sardegna. Ripetendo un po’ quello che diceva sempre il nostro portiere Gino: quando mi invitava a visitarla iniziava a elencare tutta una serie di posti da vedere».

Se lo ricorda ancora quel divertente elenco inserito nel monologo?

«Certo: “Arbatax, Arzachena, Bolotona, Buddusò, Calangianus, Castiadas, Domusnovas, Dorgali…” e via tutti gli altri. Per ricordarmeli più facilmente li avevo messi ad arte in ordine alfabetico».

“Non Stop” è considerato un programma di culto, per aver lanciato la sua carriera e quella di altri grandi talenti come Troisi. Quanto fu importante realmente per lei?

«Moltissimo. Avevo tanti interrogativi, non ero sicuro che i miei sketch potessero piacere e far ridere tutti. In teatro a Roma avevano funzionato, ma non sapevo come sarebbe andata con un pubblico diverso. Di altre città e regioni. Magari ero solo un fenomeno locale. Insomma, pur preparandomi seriamente non mi ero fatto tante illusioni. E nonostante avessi un diploma di regia al Centro sperimentale e cercassi di entrare nel cinema attraverso il mestiere dell’attore, ero anche pronto a seguire un’altra strada. Mi ero laureato e pensavo di poter fare una carriera universitaria, iniziando come assistente all’Istituto storico religioso. La maggior parte degli esami li avevo fatti in storia delle religioni. “Non Stop” fu una scommessa e andò benissimo».

Da lì a poco il debutto al cinema, da sempre una sua passione anche grazie a un padre che è stato un grande studioso.

«Sì, ha anche creato la prima cattedra di storia e critica del film in Italia. Se nelle università abbiamo questa materia lo si deve alla caparbietà di mio padre, Mario Verdone, che giudicava il cinema come arte con la A maiuscola e quindi da studiare».

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Per via di suo padre ha raccontato che in casa ha visto passare alcuni degli autori più importanti del nostro cinema. Chi è stato, secondo lei, il più grande regista italiano di sempre?

«Federico Fellini. Un poeta, un uomo che aveva una creatività tutta sua. Impossibile da imitare. Sono contento di averlo conosciuto tramite mio padre e del rapporto che ho avuto con lui. In particolare ricordo un periodo, prima che si ammalasse, quando aveva preso l’abitudine di telefonarmi la mattina presto perché sapeva che anche io come lui dormivo poco. Intorno alle 7, per diversi giorni, arrivava la sua chiamata e iniziavamo lunghe conversazioni. C’era affetto nelle sue parole e da parte mia, ovviamente, grande devozione. Adoro “I vitelloni”, “La strada”, “Il bidone”. Tutti i suoi film in bianco e nero. Gli dicevo quanto mi avevano colpito per la scelta dei personaggi, la psicologia perfetta, le facce che sceglieva. Lui, però, sentiva quel cinema così grandioso ormai lontano. Quasi come non gli appartenesse più. Era in un periodo della sua vita in cui non aveva più l’entusiasmo del passato e sentiva di aver perso contatto con una realtà che stava cambiando. Mi interrogava su quello che succedeva tra i giovani, sui gusti della gente, su una società che non riusciva più a capire».

Come attore, invece, chi era il suo preferito da ragazzo?

«Ero attratto da Alberto Sordi perché mi aveva colpito molto “Lo sceicco bianco” di Fellini, ma fu soprattutto dopo averlo visto in altri film importanti come “Lo scapolo” di Pietrangeli o “Una vita difficile” di Risi, proiettati nei cineclub che frequentavo, che capii la sua grandezza come interprete. Ma non ho mai cercato di imitarlo, sono stato semplicemente uno spettatore incantato da questo straordinario attore. Ne abbiamo avuto anche altri in Italia. Per me il più completo, capace di dare il massimo sia nella commedia sia nel genere drammatico, è stato Marcello Mastroianni che più di Sordi si è affermato anche all’estero. Ma si potrebbero fare altri nomi, come quello di Gian Maria Volonté».

Di Volonté, attore legato alla Sardegna, ricorre il venticinquesimo anniversario della scomparsa. Un suo ricordo personale?

«Lo incontrai nel 1971, quando ancora non facevo l’attore. Per strada, stavo andando da un amico, a un certo punto vedo un uomo di spalle che mi sembra Gian Maria Volonté. Scapigliato, con un trench per ripararsi dal forte vento che tirava. Mi avvicino ed è proprio lui. Lo avevo ammirato nei western di Sergio Leone e da poco avevo visto “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri. Vinco la timidezza e lo chiamo: “Signor Volonté, mi scusi…”. Si gira, il suo sguardo mi mette un po’ in soggezione, ma aggiungo subito: “Sono uno spettatore, volevo solo dirle che lei è un grande attore”. Lui con serenità, accenna un sorriso, e mi dice: “Lei è veramente gentile”. Poche parole per un incontro che ricordo sempre con piacere anche perché una decina di anni dopo, quando avevo fatto i primi film, Volonté ricambiò quei complimenti incontrando mio padre. Erano entrambi a Cuba, mio padre era andato a L’ Avana con il regista argentino Fernando Birri ad aprire una scuola di cinema. Durante un momento pubblico Castro fa il nome di Mario Verdone e Volonté, che si trovava là con una delegazione italiana, lo avvicina e gli dice: “Per caso è il padre di Carlo?”. Mio padre allora risponde. “No, è Carlo che è mio figlio!”. Si mettono a ridere e gli chiede di farmi i complimenti: “È davvero un bravo attore”. Quando mio padre me lo raccontò mi venne subito in mente quell’incontro da ragazzo. E aver ricevuto i complimenti da Volonté resta una grande soddisfazione».

Con Volonté condivide poi l’importanza che nelle vostre carriere, seppur in modo diverso, ha avuto Sergio Leone.

«Per me è stato importantissimo. Vedendomi in televisione ha capito il mio potenziale e mi ha fatto debuttare al cinema producendo “Un sacco bello” che è stato l’inizio di tutto».

Il primo di una lunga serie di film, una buona parte dei quali proposti nella retrospettiva che si sta per concludere a Cagliari. Gli organizzatori l’hanno chiamata “Carlo Verdone e la dolce allegra tristezza d’autore”, le piace questo titolo?

«Forse tristezza è un po’ troppo, non sono una persona triste. Avrei cambiato con malinconia, aspetto che fa parte del mio carattere. Ma va benissimo così. Ringrazio di cuore L’Alambicco per l’attenzione che ha avuto nei miei confronti proiettando tanti miei lavori e con presentazioni di persone autorevoli».

Da “Un sacco bello” sono passati quarant’anni. Come vive il rapporto con il tempo che passa?

«Con serenità e impegnato a fare tante cose. Cerco sempre di intercettare qualcosa che può essere d’aiuto come soggetto per il prossimo film, anche se le idee arrivano in fondo quando meno te l’aspetti. Mi piace, poi, stare a contatto con i giovani e accetto molto volentieri gli inviti che mi arrivano da università e licei perché oltre a cercare di trasmettere qualcosa ai ragazzi imparo sempre anche io da loro. E poi ho molti interessi, dalla fotografia alla campagna. Adesso sono pure membro dell’Academy e mi devo vedere i film che saranno candidati all’Oscar. Insomma, non mi annoio».

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Ma in tutta la carriera, ricca di successi, c’è stato qualche momento difficile magari per un film andato meno bene degli altri?

«Sono stato fortunato. Credo di essere l’unico autore a non aver mai fatto rimettere una lira a un produttore. Anche “C’era un cinese in coma” che non andò benissimo terminò comunque in pari e il produttore si è rifatto con il tempo vendendolo in televisione. Un film che è stato rivalutato, oggi piace molto per la sua anima malinconica e lo sguardo anche cinico sul mondo dello spettacolo. Per esempio Toni Servillo dice che è quello ama di più di tutta la mia filmografia».

Lei ha un film al quale è più affezionato tra i tanti fatti?

«Sono affezionato a tutti, sono figli miei. Poi magari un film può essere nato in un momento più felice di altri, ma tutti mi hanno dato soddisfazione. Lo vedo anche da quello che mi dicono le persone. Ognuno ha il suo preferito. C’è chi dice “Compagni di scuola”, chi “Viaggi di nozze”, chi altri titoli. Mi dica, il suo qual è?».

Dunque… forse “Borotalco”.

«Ecco, “Borotalco” è uno di quelli che mi hanno segnato di più. Perché per la prima volta lasciavo i film a personaggi e ne interpretavo solo uno. Ho sempre cercato di proporre cose nuove, diverse».

Di molti suoi lavori si ricordano anche i bellissimi personaggi femminili e le loro interpreti. Tra loro c’è la sarda Geppi Cucciari, presente in “Grande, grosso e... Verdone”.

«Geppi è una persona fantastica. Simpatica, generosa, affettuosa. Mi sono trovato molto bene con lei, abbiamo fatto insieme anche un video per un singolo di Celentano e Mina».

Ora tutti aspettano il suo prossimo film intitolato “Si vive una volta sola”. Come vive l’attesa oggi che è più difficile riempire le sale rispetto al passato?

«Uscirà il 27 febbraio. Certo oggi la fruizione del prodotto cinematografico è cambiata, questo va accettato. Quello che possiamo fare noi autori è proporre buoni film, mentre i proprietari delle sale devono renderle più comode e curarle in ogni aspetto altrimenti anche quelli che amano andare al cinema finiranno per restare a casa a vedere i film. E non va bene, in un mondo in cui siamo sempre più isolati abbiamo bisogno di aggregazione e condivisione. La sala cinematografica, così come il teatro, è un luogo importante».

Ha girato lontano da Roma, in Puglia, come si è trovato?

«Benissimo, non ho sentito il peso di Roma dove girare è più complicato burocraticamente, per la viabilità, i rumori».

Ma in Sardegna le piacerebbe fare un film?

«Certo. Ci vuole un bel tema, un soggetto giusto, una motivazione precisa. Non posso mettere una serie di sequenza tanto per mostrare la bellezza del paesaggio. Per il futuro non lo escludo».

Di sicuro ha tanti fan in Sardegna, come del resto in tutta Italia. Quel è il segreto di Verdone, di un successo così duraturo e intergenerazionale?

«Credo di essere una persona semplice, disponibile, sincera. La gente lo ha percepito e mi vuole bene per questo. Mi sento davvero in debito per l’energia che mi trasmette il pubblico e cerco di ripagarlo impegnandomi sempre di più».
 

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