La Nuova Sardegna

Enrico Costa, cantore di una Sassari nuova

Enrico Costa, cantore di una Sassari nuova

In edicola da venerdì 27 la biografia dello scrittore. Dedicò trent’anni di lavoro e migliaia di pagine alla storia della sua città

24 dicembre 2019
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Da venerdì 27 dicembre sarà in edicola con La Nuova Sardegna il volume della collana “I grandi personaggi” dedicato a Enrico Costa, con i contributi di Manlio Brigaglia, Simonetta Castia e Stefania Bagella. Ne pubblichiamo un brano.



Città come Sassari ce ne sono molte, in Italia. Ma difficilmente molte hanno, nell’albo d’oro dei loro cittadini, uno come Enrico Costa. E meno ancora hanno nel proprio album di famiglia un’opera come il Sassari, la grande opera che Enrico Costa ha dedicato alla sua città, raccogliendone e celebrandone memorie grandi, piccole e piccolissime in qualche migliaio di pagine, frutto di quasi tre decenni di lavoro ininterrotto. Che cosa lo spinse, dunque, all’opera e che cosa lo sorresse in una così lunga fatica? La risposta è semplice. Costa si trovò a vivere al punto di confluenza di una serie di elementi di condizione politica, economica, culturale che congiurarono, tutti insieme, a incoraggiarlo all’impresa. La composizione del primo volume gli prese gli anni tra il 1879 e il 1885: che sono, nella storia economica di Sassari, gli anni del boom dell’olivicoltura e delle industrie conciarie.

RICCHEZZA. Sassari diventa ogni giorno più ricca e, come diceva Pompeo Calvia in un brindisi a Pascarella, «che zucca a Cabidannu / cresci sempre più mannu». Erano anche gli anni in cui alla prima generazione dei padri del “nazionalismo” letterario sardo (il Manno, il Tola, l’Angius, lo Spano) venivano ormai succedendo uomini che, pure a contatto con il contemporaneo svolgimento della letteratura italiana, tenevano un occhio alle cose di casa e si sforzavano di rivitalizzarne, prima ancora che la cultura, la memoria: Pompeo Calvia poetava in sassarese ma era amico fraterno del napoletano E.A. Mario; Salvatore Farina se ne andava a Milano a fare amicizia con gli scapigliati; Sebastiano Satta scriveva le poesie di Nella terra dei Nuraghes (1891), ma intanto guardava al Carducci e al Marradi. In quegli stessi anni, ma più ancora in quelli immediatamente successivi, contrassegnati da una delle più gravi crisi congiunturali – ma fu una congiuntura ben lunga – che la Sardegna abbia conosciuto, si verificò a Sassari quella emersione quasi improvvisa di un gruppo dirigente giovane, grintoso, perfino antipatico, che si professava discendente di Mazzini e allievo di Cavallotti, e aveva il suo punto di riferimento in Filippo Garavetti, dal 1892 al 1904 deputato dell’Estrema Sinistra, e i suoi rappresentanti più energici in Pietro Satta Branca (poi a lungo sindaco amatissimo-odiatissimo di Sassari fra il 1904 e il 1909), Enrico Berlinguer (morto ancora giovane nel 1915), Pietro Moro, sopravvissuto anche al fascismo, Salvatore Azzena Mossa, tempiese di nascita ma sassarese di intraprese e di fortuna, tesoriere di questo “partito” locale che celebrava i suoi fasti nel salone del vecchio magazzino del Monte Frumentario, ceduto dal Comune all’Unione popolare, fondata nel 1899 per promuovere l’organizzazione politica del “popolo” sassarese.

INVIATI. Di questa classe dirigente Pompeo Calvia, Enrico Costa e Sebastiano Satta furono gli “inviati speciali” nel mondo della letteratura: con l’incarico (implicito, s’intende) al Costa di ricostruire la storia di Sassari come storia di una città (Pietro Satta Branca scriveva contemporaneamente un nitido saggio giuridico sul “libero Comune” di Sassari nei secoli XIII e XIV); al Calvia di fermarne, in sonetti d’intenso sapore dialettale, l’immagine di una civiltà, quella degli zappadori, ormai al tramonto; al Satta di offrire giambi ed epodi alla cronaca politica de La Nuova Sardegna. Intellettuali organici, in un certo qual lato modo. E inorganici a modo loro, come erano questi uomini di estri e di bizze, d’intelligenza e di verve non facilmente malleabili o inquadrabili al di là della comune componente fortemente laicista, lascito del repubblicanesimo sassarese (e, per il grande Bustianu, del ribellismo barbaricino).

INESAURIBILE. Parlando d’Enrichettu nel 1894 sulla Nuova cronaca bizantina, Grazia Deledda, già nelle grazie di Ruggero Bonghi ma non ancora consacrata nell’Olimpo letterario nazionale, poteva scrivere senza vergogna: «Io sono altera di confessarmi sua discepola, ammiratrice e seguace dell’opera sua». A parte la modestia (che sarà così rara nella Deledda successiva), che cosa vedeva nel Costa da prendere a modello? C’era in lei, io penso, soprattutto l’ammirazione per una inesauribile capacità di lavoro e di animazione, e anche per la sua instancabile attività di indagatore della cultura popolare (ce ne sono, per esempio, pagine splendide nel romanzo folk La bella di Cabras): la Deledda dovette averla presente anche quando, subito dopo quel giudizio, collaborò con diligentissime ricerche all’Archivio delle tradizioni popolari di Angelo De Gubernatis. E infine il “debito”, lei che si sforzava di guardare da vicino il mondo della Sardegna “reale” (sia pure attraverso la nebbia d’un antropologismo approssimativo), verso il modello di “racconto sardo” che quest’altro autodidatta sassarese aveva sperimentato nei suoi romanzi storici “nazional-regionali”, da Rosa Gambella ad Adelasia di Torres. Costa non fu un erudito di paese, come ce ne sono tanti nella provincia italiana di fine Ottocento (e continuano a essercene anche oggi).

SOGNO. Anche perché quello in cui visse non era un qualunque piccolo paese, ma una piccola città di buona storia: e che sperimentava allora, quando ci viveva e ci lavorava Enrichettu, un momento esaltante di sviluppo e di ambizioni, protesa com’era – secondo il disegno dei radico-repubblicani della Nuova – a diventare da centro contadino un piccolo ma fervido centro industriale. Di quel sogno “urbano” Costa fu, sul versante della ricostruzione della memoria della città, uno degli interpreti più coerenti. Se lo si avvicina all’amico-fratello Pompeo Calvia ci si accorge facilmente che, mentre Calvia sentiva che quella civiltà era al tramonto, Costa pensava che proprio la sua lunga esistenza e persino la sua resistente sopravvivenza erano la migliore garanzia di un domani di prosperità che pareva dietro l’angolo. Il sogno industriale fallì, la vecchia borghesia agraria tornò a dominare la città, Costa moriva nello stesso anno in cui le elezioni politiche sancivano definitivamente la fine dell’egemonia dei garavettiani: alla Camera andò Michelino Abozzi, monarchico e conservatore, Satta Branca si dimise da sindaco, Garavetti accettò lo zuccherino del laticlavio regio, con grande scandalo della Sassari “repubblicana”. Ma l’aura di quella età esaltante dà un respiro moderno a tutte le pagine di Costa, e dura ancora.

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