La Nuova Sardegna

La Nuoro di Sebastiano Satta: un piccolo borgo barbaricino che guardava al vasto mondo

di DINO MANCA
La Nuoro di Sebastiano Satta: un piccolo borgo barbaricino che guardava al vasto mondo

Un paese di pastori e agricoltori, uno sparuto gruppo di case abbarbicate su un breve pianoro, sorvegliato e protetto a oriente dal Monte Ortobene

02 gennaio 2020
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Sebastiano Satta nacque a Nuoro, in una casa ubicata in via Purissima, al numero 11, nella parte terminale di Pratta ’e presone betza (“Piazza della prigione vecchia”), lì dove c’era stato l’antico carcere spagnolo, poi diventata piazza Plebiscito, nel cuore della città, tra via Majore (attuale corso Garibaldi) e Santu Predu (lo storico quartiere dei pastori).

I PRIMI ANNI. Nacque il 21 maggio 1867, alle ore cinque antimeridiane da Antonio, fu Sebastiano, avvocato nuorese, e da Raimonda Gungui, fu Vincenzo, di Mamoiada, «sua prima Musa», donna di umili origini e florido ingegno. Nell’ufficio comunale Pipieddu («nome dolce e infantile che equivarrebbe a “piccolino”, a “bambino”») venne dai genitori registrato il 25 maggio, quattro giorni dopo, alle ore dieci antimeridiane, dinanzi al sindaco Francesco Galisai e agli impiegati Gabriele Cucca, fu Antonio, di anni trentotto, e Giuseppe Corbu, fu Salvatore, di anni ventisei.

SU BICHINAU. Il rione, su bichinau, andava allora da Sa Pratta (attuale piazza del Popolo) – dove verosimilmente si affacciava la chiesa che fungeva da cattedrale e che dava il nome al quartiere, Sa Purissima (e i cui riti, una volta crollata, furono spostati a Santa Maria) – sino alla piazza che oggi, trasformata in un monumento dallo scultore oranese Costantino Nivola, è intitolata a Satta, così come la strada che lo attraversa. Una lapide marmorea murata nella facciata della casa oggi ristrutturata reca l’epigrafe dettata nel decennale della morte da Salvator Ruju, il poeta e amico sassarese: «In questa umile casa / riconsacrata alla gloria / visse cantò soffrì / Sebastiano Satta / 1867 - 1914 / Nel suo moto sempiterno / ogni cosa umana il tempo / consuma tramuta / ma la divina voce / del Poeta di Barbagia / vive meravigliosa / nel cuore della stirpe / canto speranza luce / di bellezza e di bontà / alla Sardegna aspettante».

LE GRANDI ACQUE. A soli cinque anni Sebastiano perdette il padre, morto improvvisamente durante un viaggio d’affari a Livorno, «oltre le grandi acque»: «E tu, che solo, e lungi ai figli e al placido / Tuo tetto, oltre le grandi acque riposi, / Tu, padre, che tra i sogni lacrimosi / Dell’infanzia vedemmo a noi sfuggir».

La madre crebbe i due figli, Bustianu e Giuseppino, da sola, governando la domo barbaricina da autentica matriarca, con sensibilità e forza, dignità e spirito di sacrificio, per far fronte alle difficoltà economiche e alle asperità della vita: «Un tempo – oh povertà / Che ti pasci di grami desideri! – / Quando tu, Madre, ci crescevi sola / E triste, come l’aquila selvaggia / Che nutre i figli sulla rupe, ed eri / E grande e veneranda a tutti i cuori».

FIUMI E BOSCHI. La Nuoro di Satta era un modesto borgo di pastori e agricoltori, uno sparuto gruppo di piccole case abbarbicate scompostamente su un breve pianoro, sorvegliato e protetto a oriente, tra il rio Marreri e il fiume Cedrino, dal «suo Monte», l’Ortobene, imponente e verdeggiante rilievo di milleseicento ettari ricoperti da fitti boschi e folte sugherete, abitato sin dalla preistoria e disseminato di rocce granitiche dalle forme più varie, quelle stesse che Nivola avrebbe utilizzato, tra il 1965 e il 1967, per creare le surreali figure nella piazza-monumento antistante la casa del poeta («sos montes sun torraos!, i monti sono tornati!»):«Nuoro è situata nel punto in cui il monte Ortobene (più semplicemente il suo Monte) forma quasi un istmo, diventando altopiano: da un lato l’atroce valle di Marreri, segnata dal passo dei ladri, dall’altro la mite, se qualcosa può essere mite in Sardegna, valle di Isporòsile, che finisce in pianura, e sotto la grande guardia dei monti di Oliena, dilaga fino a Galtellì e al mare. Protetta dal colle di Sant’Onofrio, che Dio sa che santo doveva essere, se non ha lasciato la minima traccia di sé, neppure in un nome di battesimo, Nuoro comincia dalla chiesetta della Solitudine, che sorge su quest’istmo, scende dolcemente verso il Ponte di Ferro, dove par che finisca, e invece ricomincia subito dopo una breve salita per morire davvero poco prima del Quadrivio, un nodo dal quale si dipartono le paurose strade verso l’interno».

LA SACRA VETTA. Negli anni della sua infanzia al monte (Su Monte) ancora non svettava, tra rocce antropomorfe e torrioni di guardia, la statua del Redentore («Ecco la sacra vetta / de l’Ortobene accesa su l’immensa / ombra de’ lecci. Inno di gloria, sali / oltre il popolo accolto, oltre la trama / nera dei boschi; inno di gloria, sali / su fino a Dio»),opera bronzea dello scultore calabrese Vincenzo Jerace – innalzata nel 1901 in occasione della celebrazione del giubileo e che vide, tra i protagonisti più scettici, il Vate barbaricino: «Noi sardi siamo troppi facili agli entusiasmi e ci siamo già prestati troppo a far da piedestallo ai redentori ed ai martiri ed ai lusingatori. Per quella statua l’artefice ebbe già troppo di lode e di reclame: bisognerà ben smettere ormai la gazzarra che va tutta ad onore ed a godimento di questa manica di preti e di turiboli: poi te l’ho da dire? Io non mi sento proprio nulla per questo Cristo mentitore che ci inganna e ci trastulla da venti secoli. Al diavolo gli idoli che predicano la pace alle turbe rassegnate e disperanti! Io sono un iconoclasta, e invoco il Vento sterminatore che svella dal culmine del mio bel monte anche questo figlio di Dio».

L’EROE BANDITO. Mentre l’amico Salvator Ruju, grazie alla sua esperienza romana e alla frequentazione degli artisti delle avanguardie, superò, come Grazia Deledda, il determinismo positivista di fine Ottocento («la Sagra del Redentore che oggi è la più grande festa religiosa di Nuoro! Avevo ragione io non Bustianu, iconoclasta e questa volta di spirito poco profetico»), lui, che negli anni della maturità idealizzerà la figura del bandito in quanto incarnazione di un atavismo libertario e celebrerà, in quanto eroicamente ribellista, la sua azione contra legem, non comprese le profonde ragioni antropologico-religiose che indussero Leone XIII, volto a riaffermare il «libero arbitrio» rispetto a chi teorizzava la «razza delinquente», a far erigere in cima all’Ortobene la statua del Cristo redentore.

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