La Nuova Sardegna

Manno, servitore di quattro re: con la sua “Storia” aiutò i Savoia ad assimilare la Sardegna

di NICOLA GABRIELE
Manno, servitore di quattro re: con la sua “Storia” aiutò i Savoia ad assimilare la Sardegna

Il primo scritto di una certa ampiezza risale al 1811, quando aveva 25 anni Un intervento sull’arretratezza e i pregiudizi degli agricoltori isolani

10 gennaio 2020
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La nutrita produzione letteraria di Giuseppe Manno è il segno tangibile della portata del suo ruolo come funzionario e intellettuale di Stato, e di come la sua esistenza sia stata spesa, con spirito di servizio e abnegazione, all’insegna della necessità di trasmettere ai posteri una propria biografia intellettuale.

Quello che per la Sardegna fu il più importante storico dell’Ottocento, non è però uno storico “locale”; al contrario la sua esperienza letteraria riflette l’immagine di un funzionario che consapevolmente compie l’operazione ideologica e storiograficamente corretta di offrire alla propria dinastia la storia complessa di un’isola con l’intento di agevolarne l’assimilazione all’interno della struttura dello Stato.

TRE EPOCHE. Manno attraversa almeno tre epoche storiche, dall’età napoleonica alla Restaurazione assolutista, fino alla fase liberal-costituzionale, e si troverà a offrire i suoi servigi a ben quattro sovrani. Il suo prestigio e la fortuna delle sue opere sono il frutto di una sapiente amministrazione del proprio ruolo pubblico; seppe adattarsi alle varie congiunture «tenendo sempre a galla la sua navicella e proseguendo nella navigazione», come di lui raccontò Siotto Pintor. La sua ricca e a tratti incalzante produzione storica e letteraria offre l’immagine di quel temperamento.

AVVOCATO. L’algherese, tuttavia, non fu precoce e per individuare un suo primo scritto organico di una certa ampiezza bisogna attendere la fine del 1811. Non si tratta di una vera e propria opera letteraria, ma di una dissertazione esposta all’adunanza pubblica della Reale società agraria ed economica di Cagliari il 21 novembre 1811. Il giovane venticinquenne Manno, che fino a qualche anno prima aveva esercitato la pratica forense nello studio dell’avvocato dei poveri, patrocinando le cause di coloro che, per ragioni economiche, non potevano permettersi una difesa, rivestiva allora l’incarico di sostituto dell’avvocato fiscale patrimoniale.

MODERNIZZAZIONE. Da circa un anno era diventato socio della Reale società agraria, accademia che rifletteva la duplice natura della politica sabauda negli anni di residenza della famiglia Reale nell’isola: a una politica ferocemente e anche inutilmente repressiva nei confronti delle sacche di resistenza angioiana, la Corona aveva affiancato una linea riformista con l’intento di avviare un’organica modernizzazione della Sardegna, soprattutto in campo economico.

LA SOCIETÀ AGRARIA. Di questa linea Carlo Felice sarebbe stato il principale interprete nella doppia veste di viceré di Sardegna prima e di sovrano del regno dal 1821 poi. La Società agraria doveva rappresentare proprio una sorta di centro d’indagine, un osservatorio attorno al quale potessero catalizzarsi studi, riflessioni e divulgazioni in chiave riformista sui temi dell’agricoltura, dell’industria e del commercio.

METODI ARCAICI. Durante le riunioni pubbliche i vari membri erano chiamati a turno a presentare contributi su queste materie, discorsi che vennero successivamente raccolti e pubblicati come Memorie della Reale società agraria.

Tuttavia tra le Memorie pubblicate tra il 1836 e il 1841 non compare l’intervento tenuto da Manno nel 1811 che venne ritrovato solo molto più tardi in un quaderno autografo di trentanove pagine conservato dalla famiglia a Villanova Solaro. In quella prolusione, intitolata Il pregiudizio dell’abitudine contrario ai progressi dell’agricoltura in Sardegna, Manno intendeva evidenziare i limiti che vincolavano ancora l’agricoltura a metodi di produzione arcaici e desueti. Pur rifacendosi al pensiero fisiocratico e alla letteratura agronomica di fine Settecento, con riferimenti espliciti alle proposte di Gemelli, Cossu, Porqueddu e Simon, Manno ribadiva l’importanza del ruolo del governo nel varare e sostenere qualsiasi politica riformista.

Il suo è un attacco contro i “pregiudizi” degli agricoltori sardi, accusati di non sapersi emancipare da pratiche antiche e obsolete: «L’istesso principio d’abitudine, che attirando l’agricoltore alla cura quasi privativa d’un genere lo accieca sull’utile, che una più estesa cultura anche degli altri gli apporterebbe, è uno pure dei motivi dell’imperdonabile indifferenza, che egli dimostra nel governo e moltiplicazione degli alberi».

RAZZE INDIGENE. La resistenza degli agricoltori sardi all’introduzione di nuove colture, come «le piante leguminose», la patata, la manioca era stigmatizzata da Manno al pari dell’incapacità degli allevatori di valorizzare le specie autoctone: «la pecora sarda può vantare l’antica e sarda sua origine, e la non interrotta o confusa sua genealogia, ma i velli ispidi, rozzi ed intrattabili vi dicono abbastanza, che la gelosa custodia delle razze indigene non fu giammai il mezzo di renderle più vantaggiose». Il discorso pronunciato di fronte ai membri della Società agraria evidenzia i limiti dettati da una certa esuberanza giovanile che lo stesso Manno avrebbe censurato negli anni a venire, definendo quel discorso «una pappolata da me letta in una pubblica tornata per combattere il pregiudizio del non si può nell’applicazione dell’agricoltura sarda. La dissertazione era scrittura di novizio; il quale non migliore modello studiava allora, che la slombata e infiorata prosa dell’ex-gesuita Roberti».

RIFLESSIONE PROFONDA. Tuttavia, a una più attenta lettura, quella sua prima uscita pubblica esibiva una riflessione più profonda, non scontata, rivolta a “pregiudizi” che avrebbero minato anche in futuro l’evoluzione delle politiche agrarie ed economiche sarde: da un lato l’abitudine all’assistenza pubblica e dall’altro l’idea che la liberalizzazione del mercato potesse da sola risolvere i dilemmi della modernizzazione dell’isola.

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