La Nuova Sardegna

«L’Iran nel mirino di Trump La morte di Soleimani rafforza il regime di Teheran»

di Angiola Bellu
«L’Iran nel mirino di Trump La morte di Soleimani rafforza il regime di Teheran»

La protesta contro gli ayatollah è ripresa con vigore negli ultimi giorni ma il conflitto militare con gli Usa rischia di fare il gioco del partito dei Pasdaran

15 gennaio 2020
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Il 3 gennaio 2020 all’aeroporto di Baghdad in Iraq, viene assassinato con un drone, il generale iraniano Qassem Soleimani, su ordine del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Il generale era, dal 1998, il capo del corpo d’élite dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, i Pasdaran, la più importante forza paramilitare della Repubblica islamica. Il «martire vivente»: così si riferiva a lui Ali Khamenei, la Guida suprema della Rivoluzione iraniana. La decisione di Trump di eliminare una figura fondamentale dello scacchiere mediorientale (nel bene o nel male Soleimani era considerato un eroe o un pericoloso terrorista) ha provocato molta inquietudine tra gli analisti internazionali; qualcuno l’ha definita «il gesto di un folle». Per comprendere il contesto politico e sociale in cui si sta consumando questa ennesima crisi tra Iran e Usa – Teheran ha risposto con il lancio di una dozzina di missili balistici su due basi militari irachene dove ha sede il personale degli Stati Uniti e dei Paesi alleati – abbiamo intervistato Pejman Abdol Mohammadi, iraniano, esperto di relazioni internazionali del Medio Oriente e di geopolitica del Golfo Persico, che attualmente insegna all’Università di Trento.

Professore, nella narrazione del regime iraniano il generale Qassem Soleimani è un eroe per parte della popolazione mediorientale, par altri un terrorista. Chi era nella Repubblica islamica dell’Iran e come leggere quello che sta accadendo?

«Veniamo da tre quattro mesi di proteste civili, sia in Iraq che in libano e soprattutto in Iran, dove da tre giorni la gente ha ripreso ad andare in piazza. Sono società stanche di proxy war (guerre per procura ndr), di continue ingerenze di vari attori stranieri sul proprio territorio. In Iraq, prima del 3 gennaio, hanno spesso bruciato l’immagine dello stesso Soleimani e di altre autorità della Repubblica islamica perché li ritenevano, e ancora li ritengono, ingerenti nella loro politica interna. Lo stesso accade in Libano; non solo nei conforti dell’Iran ma anche nei confronti dell’Arabia Saudita. In Iran, nelle due settimane precedenti l’assassinio del generale Soleimani, ottanta milioni di iraniani sono rimasti isolati dentro i propri confini perché la Repubblica islamica ha chiuso Internet. Durante quelle proteste antigovernative, circa millecinquecento cittadini sono stati uccisi dai Pasdaran, di cui Soleimani era uno dei capi supremi. Questa è una premessa che spesso la stampa non fa e andrebbe fatta.

La decisione di Donald Trump di eliminare Soleimani, con un atto fuori dalla legalità internazionale, è davvero il gesto avventato di un folle?

«Il generale Soleimani non era solo un alto rango della Repubblica islamica, era il capo del cosiddetto Triangolo sciita. A partire dal 2003 quando, sotto la dottrina Bush, Saddam Hussein è stato colpito, e quindi si è creato un vuoto nella regione, l’Iran, utilizzando come risorsa simbolica l’Islam sciita, ha iniziato la sua penetrazione prima in Iraq e, dopo l’avvento delle primavere arabe, in Siria. In Libano c’era già e si è rinforzato. Quindi l’espansione, la penetrazione della Repubblica islamica dell’Iran nella regione dal 2003 al 2017 è stata esponenziale. Il generale Soleimani era il principale artefice di questa espansione. Aver colpito lui dal punto di vista della legge è illegale, è un assassinio politico; ma dal punto di vista degli Usa è un’azione politica chiaramente strategica. Washington porta avanti il disegno di Trump che, a mio avviso, è quello del roll back della Repubblica islamica, cioè riportare entro i suoi confini l’Iran, che negli ultimi quindici anni ha avuto un’espansione ipertrofica: dal Golfo persico al Mediterraneo al Mar Rosso. Sono in disaccordo e in controtendenza con la parte dell’intelligencija iraniana che reputa l’attacco di un folle l’uccisione del generale. Secondo me c’è una dottrina (soprattutto di Pompeo, probabilmente non di Trump) che mira a qualcosa di particolarmente razionale per gli Usa».

Quali saranno le possibili conseguenze, sul fronte interno, dell’eliminazione dalla scena politica di Soleimani?

«Il generale Soleimani era un cuscinetto che manteneva i rapporti tra il clero sciita, che ha il potere politico e religioso, e i militari, principalmente i Pasdaran (c’è anche l’Esercito nazionale). La sua eliminazione indebolisce la politica estera basata sullo sciismo, ma aumenta la potenza interna dei militari Pasdaran e crea nuovi spazi a nuove generazioni di militari».

Il 21 febbraio 2020 ci saranno le elezioni politiche in Iran. Nel 2021 dovrebbero esserci le presidenziali. In che modo quanto sta accadendo influirà sull’esito del voto?

«La tensione seguita all’uccisione di Soleimani cambia lo scenario. In febbraio, data la situazione di mobilitazione contro il regime di cui abbiamo parlato prima, si prevedeva il boicottaggio del voto. Quanto successo ha rafforzato il nazionalismo persiano. D’altra parte, l’autogol della Repubblica islamica che, colpendo l’aereo ucraino ha causato numerose morti civili iraniane, neutralizza l’effetto nazionalista dei funerali di Soleimani. Tre i fronti principali che partecipano: i pragmatisti, di cui il presidente Rouhani è esponente di spicco; i riformisti dell’ex-presidente Khatami; i conservatori di cui la Guida suprema Khamenei fa parte. Non è da escludere che a febbraio e alle elezioni presidenziali del 2021 ci possa essere una vittoria degli orientamenti più conservatori e più radicali».

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