La Nuova Sardegna

Elogio della mitezza La bussola da seguire per una buona politica

di Daniela Paba
Elogio della mitezza La bussola da seguire per una buona politica

Dibattito a Cagliari tra Luigi Manconi e Giovanni De Luna Ragione e tolleranza per contrastare la violenza populista

16 febbraio 2020
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La mitezza non abita più qui. Così l’elogio della mitezza – virtù che Norberto Bobbio ammirava al punto da dedicarle un saggio – torna d’attualità: perché indica una strada, dimostra una pratica, affatto mansueta, bensì antagonista. Come Mimmo Lucano insegna e come dimostra l’incontro di venerdì al foyer del Massimo di Cagliari, gremito per sentire dibattere l’argomento in modo dialettico: da una parte lo storico Giovanni De Luna, docente all'Università di Torino e studioso del Novecento, dall’altra Luigi Manconi, una vita dedicata a mettere insieme diritti e politica.

Un dibattito che prende spunto da quanto disse Bobbio nel 1983, quando definiva la mitezza «la più impolitica delle virtù». «Quando Bobbio scrive della mitezza siamo appena usciti dagli anni Settanta – chiarisce lo storico torinese – in pieno Novecento, secolo in cui la violenza era l’arena decisiva per l’esercizio del potere: distaccarsi da quest’ottica, immaginare una politica diversa, non era così facile». De Luna ripercorre il secondo Novecento evocando l’arroganza cialtrona di Vittorio Gassman nel film “Il Sorpasso” o i sogni di Fellini. «Bobbio – spiega – offre una nuova mappa concettuale, entra in rotta di collisione con la politica di allora. Mitezza non significa però mansuetudine, è virtù laica, militante, sociale perché si esprime in presenza dell’altro. Non appartiene alla vita naturale, ma va costruita con senso di responsabilità: il mite sa di dover lasciare che gli altri siano quel che vogliono essere. Per questo è ancora più attuale, perché implica consapevolezza, serietà e sano pragmatismo. Come quando, nel mare in tempesta, cade una bottiglia d’olio, intorno si crea un momento di pacificazione e serenità».

La mitezza per molti leader di quegli anni fu il risultato di un percorso biografico, ha ricordato Manconi citando Adriano Sofri, Joschka Fisher e Daniel Cohn Bendit, che conobbero la tentazione della violenza come passaggio necessario verso la non-violenza. «Bobbio scrive cinque anni dopo l’assassinio di Moro – dice Manconi – Un episodio dirimente nel rifiuto della violenza nella lotta politica». E per definire il Novecento, secolo di guerre, cita Brecht: «Noi che apprestammo il campo alla gentilezza, noi non potemmo essere gentili». Nella contemporaneità Manconi legge «una stizza sociale che rende acida la vita, perciò tutto ciò che opera in senso opposto costituisce la forza della mitezza e ne fa una virtù sommamente politica, perché ci consente di immaginare una politica diversa». La mitezza può dunque diventare un pilastro di una nuova religione civile, un patto di memoria in cui si decide cosa conservare del passato devastato della Seconda Repubblica. E' necessario però, per contrastare l’egemonia culturale della destra attuale, colonizzare uno spazio pubblico affollato di altri protagonisti. E ancorare la mitezza alla concretezza degli esempi. Come ha fatto il movimento delle Sardine, che nasce antagonista, non riproduce le invettive di Salvini, rovescia gli slogan e disarticola la logica dell’avversario mettendo al centro la relazione interpersonale, la dinamica dei corpi contrapposta alla democrazia dei click. Ilaria Cucchi e Liliana Segre – citate come figure gentili capaci di mobilitare le coscienze – segnano la distanza tra lo storico e l’uomo politico che combatte per i diritti. «Il mite è diverso dalla vittima – spiega De Luna – perché nella vittima c’è sempre la presunzione d’innocenza. Ma Falcone e Borsellino non erano innocenti, erano “colpevoli” di fare il loro mestiere».«I familiari delle vittime compiono un’operazione di straordinaria drammaticità – ribatte Manconi – vivono un lutto ma amputano un pezzo del loro dolore per far sì che diventi materia pubblica e questo è un atto politico. Dal dolore pubblico nasce un impegno collettivo». Ma nella costruzione di una religione civile puntare sulle vittime è sbagliato – insiste De Luna – come dimostra la contrapposizione tra Foibe e Shoa: «Il comune denominatore di vittime non funziona. La consapevolezza ti porta a decidere chi metti nel pantheon: la vittima innocente ti fa piangere, ma finisce lì. Il familismo morale di Ilaria Cucchi è importante, nutre la democrazia, però credo che abbiamo bisogno di più Storia e di meno memoria: le memorie grondano passioni, urlano. Ed è giusto che sia così. La storia no: è riflessione, pacatezza, documentazione. E’ ricerca, fonte, documentazione, accettazione che le cose possono essere diverse da come sono state raccontate. E' un altro modello di approcciare culturalmente la nostra realtà».

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