La Nuova Sardegna

Melkiorre Melis, esploratore della creatività

di MARIA PAOLA DETTORI
Melkiorre Melis, esploratore della creatività

Venerdì 20 con La Nuova l’ottava monografia. L’artista di Bosa, tra tradizione e nuovo design

19 marzo 2020
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Mattonelle, ninnoli colorati con profili di fanciulle e barbuti pastori, ecco che ci viene in mente quando pensiamo a Melkiorre Melis. Cose di poco conto, direte voi.

Eppure. Eppure ciò che oggi può apparire scontato cento anni fa era una difficile e spavalda conquista, frutto di migliorie nella tecnica e di una raffinata rilettura del nostro patrimonio etnografico, trasfigurato nel linguaggio contemporaneo dell’arte decorativa. Già, nasceva l’arte decorativa moderna: e Melis vi gioca un ruolo non secondario. Appartenente a una famiglia di artisti, l’iniziale formazione a Bosa col pittore orientalista Emilio Scherer lascia il posto a quella romana con il vero maestro, Duilio Cambellotti. Al suo esempio – Cambellotti spazia dalla scultura alla grafica, dalla ceramica alla pittura e scenografia, arti applicate e design – e al fermento che lievitava nella piccola ma combattiva pattuglia di artisti isolani, si deve la spinta a esplorare le tante possibilità creative offerte dal nuovo secolo, l’invito a mettere in pratica l’ideale di progettazione globale tipico del Modernismo. Melkiorre esordisce negli anni Dieci come grafico, con figurine ironiche ed estenuate, apprezzate locandine e manifesti pubblicitari. A Roma si ritaglia presto un ruolo di rilievo: commissario ordinatore delle esposizioni, guida la rappresentanza artistica sarda nelle mostre, nelle quali opere d’arte e pregevoli pezzi di artigianato convivono, secondo il nuovo indirizzo che si va concretizzando, e che punta alla rinascita delle arti decorative a partire dall’arte “rustica”. Una manna per gli artisti isolani: da un lato consente loro di esaltare l’appartenenza regionale, dall’altro di attingere a un patrimonio etnografico di rara e smagliante ricchezza. È così che, con Melis curatore, la “sala sarda” spopola alle mostre romane (alla Casa d’Arte Bragaglia, alle Biennali del 1921 – 23, alle Esposizioni degli Amatori a Cultori), e poi, soprattutto, alle diverse edizioni della Biennale d’Arte Decorativa di Monza, che nel 1923 apre con uno spazio dedicato alla Sardegna, il cui allestimento è affidato, ancora una volta, a Melkiorre.

Lui intanto, insieme al fratello Federico, ha lavorato a migliorare la sua tecnica di ceramista: ha trasfuso nella ceramica la capacità di sintesi del suo segno grafico, aggiungendovi però la malia di colori splendenti; geometrizza, riduce all’essenza, riprende il colore che viene dalla tradizione, traducendo lo spunto in un’immagine nuova, moderna, di grande efficacia. La sua opera affascina per la peculiarità dei soggetti e lo stile personalissimo, garantendogli un posto nella nuova arte decorativa italiana. La collaborazione con Alessandro Limongelli, giovane architetto in ascesa nell’ambiente romano, impegnato sia a Roma che a Tripoli, apre nuove prospettive. I primi anni Trenta vedono Melis coinvolto nelle mostre coloniali: per la seconda, a Napoli nel 1934, Biasi arriva a pregarlo di trovare un posto decoroso ai suoi quadri; e alla fine di quell’anno è addirittura il Governatore Italo Balbo a chiamarlo a Tripoli. Balbo è stato allontanato da Roma da Mussolini, che ne teme il crescente successo: ma non ha intenzione di farsi dimenticare. La sua “italianizzazione” della Libia – nuovi edifici e infrastrutture, riorganizzazione del lavoro (naturalmente a scapito dei nativi) – prevede l’incremento delle attività produttive, a cominciare dall’artigianato. Sia chiaro: l’intenzione non è promuovere le tradizioni locali, ma “nobilitarle” grazie a un’infusione di italianità. Melis è la persona più adatta: la sua carriera, ma soprattutto il suo essere sardo lo rendono, diciamo così, in automatico, un esperto di artigianato locale. Dal dicembre ‘34 l’artista è dunque a Tripoli, presto Direttore della Scuola Musulmana di Arti e Mestieri; in breve avvia una Scuola d’Arte Ceramica, imponendo un prodotto di fatto assente nella tradizione tripolina. Qui sperimenta, in grande, quelle che erano state le prove di unione tra architettura e decorazione già testate anni prima: con gli architetti chiamati a operare in Libia crea scaloni sfavillanti di ceramiche, fontane e tappeti di maiolica, allestisce sale espositive per le opere della Scuola. Nel frattempo dipinge e partecipa alle mostre in patria, alle quali è regolarmente invitato e cui invia scene di vita tripolina desunte, rigorosamente, dalle belle fotografie che lui stesso realizza: spose beduine, venditori di frutta, flessuose fanciulle dalle nudità esposte, prede facili come le miti gazzelle, e così peccaminose e invitanti per il pubblico maschile. Ma la vetrina più prestigiosa in cui esporre le sue creazioni, la grande Mostra Triennale d’Oltremare di Napoli del ’40, è presto smantellata a causa dell’entrata in guerra dell’Italia.

Si spegne il sogno coloniale; tornato a Roma, riprende con fatica il filo della sua sardità, cercando un nuovo punto saldo da cui ripartire: senza più tuttavia trovarlo davvero.

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